Bobi Wine, da popstar a leader d’opposizione in Uganda

di Ilaria Solari (esquire.com, 23 ottobre 2022)

Lo hanno soprannominato lo Zelensky africano, forse perché Bobi Wine, nome d’arte di Robert Kyagulanyi Ssentamu, popolare musicista e leader del principale partito d’opposizione nell’Uganda totalitaria del presidente Yoweri Kaguta Museveni, al potere dal 1986, è un artista come il presidente ucraino. Un musicista, per la precisione. Curiosamente, anche il suo curriculum registra la partecipazione a un talk-show, per quanto lontana nel tempo.

Courtesy of “Bobi Wine: The People’s President”

Non è quindi un caso se Wine, dopo aver presentato alla Biennale Cinema di Venezia, dove lo abbiamo incontrato, l’incandescente documentario che i registi Christopher Sharp e Moses Bwayo gli hanno dedicato, Bobi Wine: The People’s President (su NatGeo nel 2023), abbia deciso di concludere la sua trasferta europea a Kiev, in solidarietà al popolo ucraino e al suo governo. «Se i dittatori si sostengono a vicenda, anche i democratici dovrebbero farlo. È pericoloso, ma nobile», ha scritto sui suoi canali social l’intrepido leader cresciuto nella baraccopoli di Kampala che, dopo aver ottenuto un trascinante successo come popstar, si è trasformato nel principale oppositore di Museveni, sfidandolo prima da parlamentare, poi da candidato alla presidenza, nonostante minacce, attentati, arresti e torture.

Il film, presentato fuori Concorso, lo rappresenta come un irriducibile: dalla sua Wine ha il sostegno popolare, quello dei giovani in particolare: ai loro occhi è una sorta di eroe romantico, le sue parole arrivano a tutti grazie alla musica. «È il mio più grande amplificatore», racconta. «Se ho un messaggio politico, lo affido a una canzone, perché so che molti altri la canteranno». La sua bollente miscela di afrobeat, rap e versi di denuncia accompagna anche il film, che ripercorre la campagna dal 2017 al 2021, quando Wine uscì sconfitto dalle elezioni contro Museveni, un risultato messo in dubbio da organizzazioni internazionali e governi, Stati Uniti compresi, sulla base di prove conclamate di brogli.

Come è nata l’idea del film?

«Quando sono stato eletto in Parlamento, ho chiesto al mio team di lasciarmi fare un’ultima performance. Ero stato ingaggiato da un’amica che doveva sposarsi a Malta. Tra gli invitati c’era un produttore: abbiamo fatto amicizia. Ha trovato la mia storia interessante e mi ha proposto di riprendere con una troupe le mie giornate. Ho accettato, ho permesso ai suoi collaboratori di accompagnarmi a tutte le riunioni, ai comizi. Col tempo la telecamera è diventata parte di noi. Non mi sono mai pentito».

La storia ripercorre i suoi inizi nel ghetto.

«Sono nato in una famiglia di musicisti. Mia madre cantava in chiesa, il suo coro era sempre a casa. Sono cresciuto coi ritmi gospel nel sangue, ma la mia inclinazione ribelle mi faceva preferire il reggae e la musica dance, mi sentivo un po’ Bob Marley coi suoi dreadlocks. Ho iniziato a cantare perché la musica mi serviva».

Le serviva?

«A esprimere me stesso, ciò che avevo attorno: allora i miei testi già raccontavano il ghetto, ma parlavano di birra, feste, ragazze, il resto non mi interessava. Vedevo le ingiustizie, le persone picchiate, torturate, o cacciate dalla loro terra. Mi accorgevo della corruzione. Io però stavo bene: ero giovane, ero una star. A 23 anni possedevo una spiaggia, una bella villa, guidavo una Cadillac Escalade, insomma, mi sentivo realizzato. Non mi andava di preoccuparmi dei problemi degli altri. Poi è successa una cosa…».

Cosa?

«Ero in un locale notturno, avevo abiti firmati, una bella macchina, tutti gli occhi addosso, un mio coetaneo all’improvviso mi ha provocato. Mi ha pestato, poi mi ha puntato una pistola alla testa: “Perché ti metti in mostra? Non l’hai capito che in questo Paese non conviene dare nell’occhio?”. Mentre tornavo a casa, una voce nel mio cuore urlava: “Te lo sei meritato. Questo posto è pericoloso, ma tu eri troppo occupato a vendere dischi per accorgertene”. Da quel momento ho iniziato a usare la musica per dare voce alle persone più fragili. Ma mi ci sono voluti altri dodici anni per capire che cantare non era sufficiente. Così nel 2017 ho deciso d’impegnarmi concretamente».

La musica l’ha aiutata ad affermarsi come politico?

«Le cose che denunciavo da tempo attraverso la musica mi hanno reso politicamente credibile, soprattutto tra i giovani. Quando ho annunciato che mi sarei candidato ho riscosso un immediato sostegno, una sorta di abbraccio collettivo».

La sua presenza in Parlamento ha fatto la differenza?

«Purtroppo in Uganda la vita democratica è falsata, le informazioni sono controllate dal regime di Museveni. Ho capito in fretta che dovevo sfidarlo e sconfiggerlo: tre anni dopo ho deciso di candidarmi alla presidenza. Il Paese è impazzito: ho vinto, ma i risultati annunciati erano completamente diversi dai numeri emersi dalle urne, ci sono le prove dei brogli. Giornali e televisioni erano blindati dai militari, la rete Internet era saltata. I giorni che hanno preceduto il voto e quelli successivi sono stati contraddistinti da continui episodi di violenza e violazioni dei diritti umani».

È stato arrestato e torturato, ha subito attentati. Era consapevole dei rischi che avrebbe corso quando ha deciso di candidarsi?

«Non mi aspettavo che si scatenasse tutta quella violenza. Non ero pronto alle morti di madri e di ragazzini, ai massacri e ai rapimenti degli amici. Molti di loro sono stati arrestati, con tutta la mia squadra elettorale».

Ultimamente ha viaggiato molto, in Usa e in Europa, cosa si aspetta dai leader dei Paesi che ha visitato?

«Non dirò che cosa mi aspetto, ma ciò che ho chiesto: non condividete i crimini di regimi come quello di Museveni. Non fate affari con loro. Cosa ci unisce come comunità internazionale? Essenzialmente tre cose: la democrazia, lo Stato di diritto e il rispetto dei diritti umani. Usate quella lente per giudicarci, sfidateci su quel piano. Sono cose che conoscete bene. L’Italia, come altri Paesi, non sarebbe dov’è se avesse avuto, come noi, un solo leader per trentasei anni. Il vostro popolo ha sofferto sotto la dittatura di Mussolini. Non chiediamo il vostro aiuto, vi preghiamo solo di non aiutare i nostri oppressori».

Dove regna la democrazia, il tasso di chi si astiene alle elezioni continua ad aumentare.

«Avete il diritto di determinare il vostro destino, il futuro dei vostri figli. Usatelo. Proteggetelo. A noi è stato scippato. Per riaverlo dobbiamo lottare».

Qual è la sua condizione ora?

«Sono il leader del più grande partito di opposizione, ma ho solo sei eletti in Parlamento. Abbiamo vinto le elezioni, ma ci hanno messo all’opposizione. Sono un cittadino libero, ma faccio dentro e fuori dalla prigione. Non c’è alcuna legge che m’impedisca di viaggiare, ma se la polizia mi riconosce all’aeroporto mi arresta: se voglio lasciare il Paese devo travestirmi. Grazie al cielo, il personale dell’aeroporto e la maggior parte dei funzionari sono dalla nostra parte: se non hanno un ordine preciso, fingono di non vedermi».

C’è qualcuno a cui vorrebbe dedicare il film?

«Agli amici uccisi. Ai prigionieri politici: vorrei che sapessero che siamo con loro, la libertà arriverà. A chi è scomparso vorrei dire: spero siate vivi. Ci mancate. A chi è morto, che il loro sacrificio non sarà vano. Non ci arrendiamo».

E al ragazzino che è stato, che direbbe?

«Gli chiederei se sente di essere arrivato dove voleva. Sognavo di fare musica, d’ispirare la mia generazione. Spero di esserci riuscito, ho fatto del mio meglio. A tutti i ragazzi là fuori vorrei urlare: l’impossibile non è nulla. I limiti sono fatti per essere superati».