Casaleggio e dissociati

di Mario Lavia (linkiesta.it, 24 aprile 2021)

Il diluvio affoga i Cinquestelle sotto la congiunzione astrale della caduta di Beppe Grillo e dell’addio di Rousseau, cioè gli dei di un Movimento nato in sordina e in sordina entrato in crisi. Forse esiste un nesso fra i due accadimenti, forse no. Non è da escludere che Grillo sia andato fuori di testa certo per la vicenda giudiziaria del figlio ma chissà se anche perché da vecchio istrione ha sentito il fruscìo dell’ombra di Banquo recante il fallimento del più grande spettacolo della Seconda repubblica, a parte quello di Silvio Berlusconi; forse aveva previsto la fuga dell’impresario inopinatamente intitolato a Rousseau che sin qui garantiva la più colossale parodia della democrazia; e poi attori e comparse disertare le prove, e il pubblico rivolere indietro i soldi del biglietto.

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Dopo tanti anni di pienoni ecco le sedie improvvisamente vuote, una compagnia in disfacimento e un copione ormai inservibile. Persino l’attor giovane che avrebbe dovuto risollevare gli incassi, un certo Conte Giuseppe, ha preso a impappinarsi a ogni battuta cominciando a guardarsi attorno per trovare altro per la prossima stagione. Nemmeno un’ideuzza, per ora, è venuta fuori da questo ex premier senza volto, come Forattini disegnava Giovanni Goria, uno statista al confronto. Da vero primattore Grillo ha lasciato con una scena madre di pessimo gusto nel segno della follia di un Re Lear vergognosamente retrogrado e infamante, un addio terribile e penoso insieme e vecchio come il Firs di Cechov («Se ne sono andati, mi hanno lasciato solo…»), mettendo a nudo un cuore per il quale è possibile – come ha scritto Simonetta Sciandivasci sul Foglio – «l’idea che la violenza sessuale possa essere un incidente, un effetto collaterale di una sbornia, il punto più estremo del divertimento più estremo». Ma se Grillo ha perso la testa, il Movimento ha perso la faccia: per una maledizione della storia più che della natura le colpe dei padri infatti ricadono sui figli se i figli non le denunciano e anzi le coprono con i silenzi inquietanti dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, del delfino Luigi Di Maio e di tutti gli altri ex contestatori della Repubblica Italiana.

Come nelle tragedie greche il Fato ha collocato nello stesso atto, forse quello finale, la fuga di un altro mito grillino: Rousseau. Era l’emblema di una democrazia diretta buona per scampagnate domenicali come in un film di Jean Renoir, però a suon di clic finalizzati a nominare personaggi in cerca d’autore ovunque possibile purché con un buono stipendio. Un meccanismo essenzialmente autoritario perché non trasparente in mano a gente che oltre ai soldi poco altro aveva in mente, meno che meno l’egualitarismo (reazionario) del ginevrino cantore dell’homme sauvage. Così Davide Casaleggio per vedere cammello, cioè la rifondazione del Movimento – era più facile rifondare il comunismo come avrebbero voluto Fausto Bertinotti e Armando Cossutta –, pretendeva i soldi dovuti, circa 450mila euro, una cifra che i debitori grillini, come Paperino, si sono ben guardati dal promettere. «Non sono stati saldati i debiti» ha scritto Rousseau, «per questo siamo costretti ad avviare le procedure per la cassa integrazione dei dipendenti». Che tristezza di storia quella che finisce a carte bollate: ecco perché Enrico Letta tutto dovrebbe fare tranne che riattaccare con lo scotch un pallone sgonfiato, ma semmai rivolgersi ai tanti elettori grillini costernati per la riduzione della politica a livelli primordiali.

Ed è strano che i professionisti della politica non si rendano conto che la caduta degli dei Grillo e Rousseau segna l’inizio della fine di un tumultuoso ciclo che portò l’antipolitica al centro del cielo italiano, ma che adesso trascolora in farsa e libera forze e voti che chiedono una seria rappresentanza politica. Perché, dunque, resuscitare alle amministrative un Movimento a cui si va disfacendo il belletto come al professore di Morte a Venezia? Perché invece non provare a renderla finalmente inoffensiva, l’antipolitica grillina, nella convinzione che – dopo tanta ricerca che nemmeno Pfizer e Moderna – il vaccino della Politica, da Mattarella a Draghi, stia cominciando a fare effetto? Già, perché forse il senso della tragedia del M5S è tutta racchiusa in quel sipario magicamente calato dal presidente della Repubblica sul tempo perduto e insopportabile del grillismo spadroneggiante sul balcone di Palazzo Chigi, emblema farsesco di un populismo che voleva assaltare il cielo ma che oggi pare, baudelairianamente, «un cimitero aborrito dalla Luna».