Chi è stato Bill Russell

(ilpost.it, 1° agosto 2022)

Bill Russell, morto domenica scorsa a 88 anni, è stato il giocatore di basket americano più vincente di sempre. Ha giocato in Nba per tredici stagioni fra il 1957 e il 1969, tutte con i Boston Celtics, e ha vinto il titolo undici volte. È riconosciuto da molti esperti come uno dei cinque migliori giocatori della storia e prima dell’arrivo di Michael Jordan era spesso indicato come il migliore in assoluto, preferito a Wilt Chamberlain, contro cui ha giocato per gran parte della carriera. Con il suo stile di gioco particolarmente focalizzato sulla fase difensiva e il suo fisico agile e asciutto ha cambiato il ruolo del centro, ancora più fondamentale di oggi: all’epoca i giocatori più alti e potenti dominavano la lega americana. Chiudendo la carriera nel doppio ruolo di giocatore e allenatore, è diventato il primo nero a guidare una squadra Nba, vincendo due campionati.

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Ma il suo impatto sulla società americana è andato oltre i meriti sportivi: Russell è stato con il suo impegno civile e le sue scelte personali un riferimento dei movimenti per i diritti degli afroamericani e per la lotta al razzismo. Nel 2011 l’allora presidente Barack Obama gli conferì la Medal of Freedom (Medaglia presidenziale della libertà), la più alta onorificenza americana insieme alla Medaglia del Congresso, per «aver lottato per i diritti e la dignità di tutti gli uomini». Nato nel 1934 a Monroe, in Louisiana, Stato in cui all’epoca c’era una forte segregazione razziale, Russell ha raccontato di essersi confrontato sin dall’infanzia con il razzismo. Quando aveva nove anni la sua famiglia si trasferì a Oakland, in California, dove Russell mostrò le sue doti cestistiche prima alla McClymonds High School, poi alla University of San Francisco. Voluto ai Celtics da Red Auerbach, allenatore a sua volta destinato a diventare tra i più vincenti della Nba, quando arrivò a Boston Russell era l’unico giocatore nero della squadra. La città allora era lontana dall’immagine “liberal” che la contraddistingue oggi, come ha raccontato Russell nel suo libro di memorie Second Wind: «Per me, Boston era un supermarket del razzismo. Ne trovavi di tutti i tipi, vecchi e nuovi, e nelle loro forme più virulente. La città aveva i razzisti corrotti della cricca del governo cittadino, quelli che tiravano mattoni, quelli del “rimandateli in Africa”, e nelle aree universitarie anche i razzisti radical-chic». Russell per questo durante tutta la carriera mantenne sempre rapporti limitati con i tifosi e rifiutò tutti i riconoscimenti pubblici, “riconciliandosi” con la città solo decenni dopo: dal 2013 c’è una sua statua nella piazza del Municipio.

Il suo impegno per i diritti civili fu costante e prese forma a vari livelli. Russell era presente nelle prime file alla “Marcia per il lavoro e la libertà” di Washington del 1963 in cui Martin Luther King pronunciò il celebre discorso “I have a dream”, fu fra i firmatari di un documento di appoggio a Muhammad Ali quando questi rifiutò la leva militare durante la guerra in Vietnam, sostenne gli attivisti per i diritti civili in varie campagne. Recentemente, nel 2017, si era schierato con i giocatori afroamericani di football americano che avevano scelto di inginocchiarsi durante l’inno americano. Il suo impegno per la comunità afroamericana andava di pari passo con l’immagine sportiva di perfetto “uomo-squadra”. Russell fu sempre più interessato ai successi dei Celtics che ai traguardi personali. Dotato di doti offensive buone ma non eccelse (15 punti di media a partita), Russell sfruttava i suoi 209 centimetri e il suo straordinario atletismo per dominare le partite a livello difensivo. In carriera ha preso 21.620 rimbalzi, con l’incredibile media di 22,5 a partita e un record di 51 in una singola gara contro i Syracuse Nationals nel 1960 (nell’ultima stagione regolare il miglior rimbalzista del campionato è stato Rudy Gobert con 14,7 rimbalzi di media a partita). Dopo i rimbalzi innescava velocemente l’efficace contropiede di Boston, che partiva anche subito dopo le sue numerose stoppate. In questo fondamentale, di cui non esistono statistiche perché allora non venivano conteggiate, fu massimo interprete, anche per la capacità di trasformare il tiro bloccato in un passaggio verso i compagni.

Il suo impatto sulla Nba fu subito enorme: vinse il titolo alla prima stagione, venne nominato miglior giocatore della lega nella successiva, poi fu principale protagonista della serie di 8 campionati vinti consecutivamente dai Celtics. In quegli anni la Nba fu caratterizzata dalla rivalità fra Russell e Wilt Chamberlain, centro prima di Philadelphia e poi dei Los Angeles Lakers, un altro fra i migliori giocatori di sempre. Chamberlain, capace di segnare 100 punti in una singola partita (nel 1962, con Philadelphia contro i New York Knicks), dominava le partite offensivamente, ma Russell riusciva spesso a limitarlo e a batterlo nelle decisive sfide dei playoff e delle finali, con l’unica eccezione del campionato del 1967. Dopo il passaggio di Auerbach a un ruolo dirigenziale, Russell gli succedette come allenatore, restando anche giocatore e vincendo altri due titoli. Non fu il primo afroamericano in panchina in assoluto in uno sport professionistico, ma i due predecessori, Fritz Pollard nel football americano degli anni Venti (in una Nfl agli albori), e John McLendon nel 1961-62 nella seconda lega di basket americana (la Aba), ebbero un impatto decisamente minore. Russell restò un caso unico ancora per un decennio, prima che Frank Robinson diventasse capo-allenatore dei Cleveland Indians di baseball nel 1975.

Russell ha chiuso la sua carriera con 11 titoli Nba vinti, 5 premi da Mvp (Most Valuable Player, miglior giocatore) della stagione, 2 titoli universitari e 1 oro olimpico (Melbourne 1956). Ha continuato la carriera di allenatore a Seattle e brevemente a Sacramento, senza riuscire a replicare i successi, poi è diventato commentatore televisivo. Nel 1975 è stato inserito nella Hall of Fame come giocatore, nel 2021 come allenatore. Dal 2009 il premio di miglior giocatore delle finali dei playoff, che quando giocava non esisteva, porta il suo nome. Russell nel nuovo millennio è stato spesso ambasciatore della Nba, che nel frattempo ha condiviso molte delle sue battaglie per i diritti civili degli afroamericani. La sua ampia famiglia (ha tre figli ed è stato sposato quattro volte) nell’annunciare la sua morte ha voluto ricordare, prima dei successi sportivi, il suo «impegno per i principi, nobile, senza compromessi e sempre costruttivo».