Dietro la chioma della Botteri la subcultura del conformismo analfabeta

di Fulvio Abbate (huffingtonpost.it, 13 gennaio 2021)

L’Affaire I-Capelli-della-Botteri, tragico a dirsi, è politicamente assai più rilevante di quanto non possa apparire invece ai molti distratti. Il fatto che abbia avuto inizio tra le maglie della satira di Striscia la notizia su Canale 5 nulla toglie alla sua essenza profonda, se non assoluta, alla sua desolante realtà. Assodato ancora che alla satira tutto deve essere concesso, pena l’assenza di doverosa ironia in chi volesse denunciare lo scempio laddove è invece doveroso mettere i baffi alla Gioconda. Ma qui il nodo è davvero altrove. In realtà, al di là di chi sia stato lo spinterogeno primo a mettere in moto l’intera questione, il Caso Botteri presenta e insieme conferma alcuni segnali subculturali, temo endemici, molto evidenti.GiovannaBotteri_capelli_StrisciaMostrare interesse critico, senza necessariamente avere un’abilitazione da parrucchieri, diplomati “hair stylist”, per lo stato presunto della capigliatura di una professionista del giornalismo, tra l’altro dotata di gentile ironia come ha già dimostrato nella replica iniziale, non è mai un fatto neutro. Questo genere di considerazioni custodisce infatti un implicito stigma, di più, un anatema, pronto a innalzare le tavole della legge del presunto decoro unico. Qualcosa che in filigrana riporta alla memoria le ottuse sirene della squadra del buon costume, già attenta alla “pubblica morale”. Singolare che, a fronte del macro evento di un’irruzione nel Parlamento planetario da pelli d’orso e corna di vichingo, si debba rilevare invece un tema che investe unicamente l’antico sentire “reazionario” della Destra diffusa convinta della propria legittimità poliziesca, ferma nel suo tanfo di mediocrità.

Non c’è però occasione migliore della Querelle Botteri per affrontare il nodo, soprattutto dopo che la diretta interessata, sul profilo Facebook di Che tempo che fa di Fabio Fazio su Raitre, si è nuovamente dovuta dilungare circa i canoni di una presunta propria “impresentabilità”: «Non mi sono colorata i capelli e non indosso abiti firmati. Credo che sia un diritto di ognuno di noi di esprimersi al meglio, essere quello che siamo. Ho colleghe geniali e preparate che indossano tacchi a spillo ed hanno i capelli sempre perfetti. Non deve essere nemmeno il modello opposto, ma solo come meglio ti senti. Io faccio la giornalista non faccio la soubrette, e cerco di essere vestita in modo civile e decente ma da professionista che lavora. Da me la gente non si aspetta pettinature hollywoodiane, si aspetta di sapere le notizie, di sapere quello che sta succedendo».

Sembra quasi, leggendo queste sue parole, che occorra giustificare la propria estraneità, direbbe Alberto Moravia, al modello “faccia da pettine” o semmai “faccia da lametta”, esattamente così per scongiurare d’essere bollati come “sudici”, per non sentirsi dire “Làvati!”. Con una coda di insulti ulteriori pronti a designare la nozione di “sporco”, il corpo degradato allo stato implicitamente bestiale. Argomenti propri di una piccola borghesia in cuor suo, come dire, “nazista”, perfetta nel brillare in questo genere di argomenti. Da rammentare, parrà strano, le trecce del modello unico della Bdm, la gioventù femminile hitleriana, per averne contezza. Non crediamo di esagerare rilevando che la Rete è colma di questo bouquet di insulti riferiti a chi non voglia aderire al canone di una presunta mediocre prevedibile “presentabilità”.

Se Garibaldi osava i capelli lunghi, al contrario, decenni e ancora decenni dopo, il termine “capellone” assume il viraggio dell’abominio morale, forse anche sessuale, e poco importa, nonostante si tratti di un Paese cattolico, che anche Cristo li portasse fin sopra le spalle, non a caso nell’iconografia della “controcultura” beat si rispondeva al conformismo del “ben pensante” con un manifesto dove il volto del Messia era accompagnato da un grande “Wanted”. Fra i titoli della pubblicistica “borghese” nazionale di certi anni si strillava proprio all’abominio etico dei “capelloni”. Perfino il cinema leggero e di intrattenimento non seppe fare a meno di affidare a Totò, le forbici nella fondina, il ruolo di barbiere moralizzatore, così destinato, appunto, a riportare ordine e decenza. Quel mondo è forse intatto nella sua ottusa pretesa di disciplina e decoro? In ogni parola pronunciata a stigmatizzare i capelli di Giovanna Botteri, o chiunque altro dia agli ottusi la sensazione della diserzione naturale da pettine e spazzola, si intuisce l’ennesima mossa dell’instancabile, endemica, subcultura del conformismo analfabeta.