Dovremmo studiare meglio gli effetti dei social network sul comportamento collettivo

(ilpost.it, 11 luglio 2021)

Gli effetti prolungati e dirompenti della pandemia da Coronavirus su molte abitudini umane, così come gli sforzi compiuti da governi e autorità sanitarie per limitare i contagi, tra il 2020 e il 2021, hanno reso molto evidente il bisogno di una comprensione chiara delle modalità di interazione tra le persone e di condivisione delle informazioni su larga scala. Un articolo redatto da un gruppo di diciassette ricercatori [Stewardship of global collective behaviourN.d.C.], da poco pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), sviluppa attraverso una serie di argomenti l’idea che sia opportuno e urgente studiare approfonditamente i modi in cui i social media e le attuali tecnologie di telecomunicazione condizionano le interazioni tra le persone e i comportamenti collettivi.

Ph. Jarrad Henderson / Usa Today

Gli autori dell’articolo sono studiosi che si occupano di tecnologia, comportamento e sistemi complessi, lavorano in diversi ambiti disciplinari – biologia, neuroscienze, psicologia, antropologia – e provengono da istituti e università di varie parti del mondo, tra cui l’Università di Washington, l’Università di New York, l’Università di Princeton, l’Università di Stoccolma e l’Università Cattolica Australiana. «Negli esseri umani, i flussi di informazione sono stati inizialmente modellati dalla selezione naturale», scrivono i ricercatori «ma sono oggi sempre più strutturati dalle tecnologie di comunicazione emergenti». Il digitale e l’avvento dei social media, proseguono, hanno accelerato i cambiamenti nei nostri sistemi sociali – dalle relazioni interpersonali fino alle modalità attraverso cui raggiungiamo un consenso –, ma le conseguenze di questi cambiamenti sono poco comprese e poco studiate. L’impatto su larga scala della tecnologia sulla società dovrebbe invece essere trattato come una «materia di crisi», secondo i ricercatori, e cioè in modo non diverso da come, per esempio, la biologia della conservazione si occupa della protezione delle specie in via di estinzione, o di come la ricerca sul clima mira a ridurre o arrestare il riscaldamento globale. La ragione di questa necessità è l’apparente vulnerabilità degli ecosistemi costruiti attraverso i social media rispetto alla disinformazione, vulnerabilità che rappresenta «una minaccia per la salute, la pace, il clima» e, in generale, un pericolo per la democrazia e per il progresso scientifico. L’obiettivo concreto della ricerca dovrebbe essere quello di fornire informazioni utili ai regolatori e ai responsabili delle politiche e della gestione dei sistemi sociali.

«I nostri adattamenti sociali si sono evoluti nel contesto di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori che risolvono problemi locali attraverso vocalizzazione e gesti. Ora affrontiamo complesse sfide globali, dalle pandemie ai cambiamenti climatici, e comunichiamo su reti diffuse collegate da tecnologie digitali come smartphone e social media», scrivono gli autori dell’articolo. Non avere una conoscenza approfondita delle relazioni tra gli strumenti forniti dalle aziende tecnologiche e i comportamenti collettivi, e continuare a lasciare quelle relazioni incomprese e incontrollate, potrebbe avere conseguenze indesiderate e favorire lo sviluppo di fenomeni come «manomissioni elettorali, malattie, estremismo violento, carestie, razzismo e conflitti». Conseguenze che, si potrebbe argomentare, sono già visibili. La struttura dei social network e gli schemi di informazione presenti in essi, sostengono i ricercatori, «sono diretti da decisioni ingegneristiche prese per massimizzare la redditività», e i cambiamenti sociali che la tecnologia ha contribuito a produrre su scale di massa sono drastici, opachi e non regolamentati. «Abbiamo costruito e adottato una tecnologia che altera il comportamento su scala globale senza avere una teoria di ciò che accadrà né una strategia coerente per limitare i danni», ha detto Joe Bak-Coleman, ricercatore del Center for an Informed Public dell’Università di Washington e uno degli autori principali dell’articolo pubblicato su Pnas.

Il lavoro dei ricercatori cerca di applicare al discorso sui social network le attuali conoscenze sui sistemi complessi. Prova a tracciare delle analogie con altri comportamenti collettivi osservati in natura – tra banchi di pesci, stormi di uccelli, formiche e altri animali – e si concentra su alcuni specifici cambiamenti problematici. Uno riguarda la scala delle reti sociali umane, che ha subìto un incremento rapido e significativo nell’arco di pochi decenni, mentre le istituzioni si sono evolute nell’arco di periodi molto più lunghi nella storia degli umani moderni. «Espandere la scala di un sistema di comportamento collettivo di otto ordini di grandezza ha di certo conseguenze funzionali» scrivono i ricercatori, e già soltanto questo cambiamento è sufficiente «ad alterare la capacità di un gruppo di prendere decisioni accurate, raggiungere una chiara maggioranza e cooperare». Un altro cambiamento riguarda la struttura della rete, e cioè il fatto che le nuove tecnologie permettono di avere contatti sociali con un numero maggiore di individui rispetto al passato. Che può essere un bene, spiegano i ricercatori, come nel caso delle «collaborazioni transnazionali e transdisciplinari, e la rapida diffusione di idee scientifiche» o «il superamento dell’isolamento degli individui che non si adattano alle loro comunità locali a causa delle loro convinzioni e preferenze». Ma le caratteristiche macroscopiche di queste strutture possono anche determinare fenomeni come «le echo chamber e la polarizzazione, l’erosione della fiducia nei governi, la diffusione di instabilità economiche locali, le difficoltà a coordinare le risposte alle pandemie».

Gli attuali flussi di informazione globali hanno, inoltre, determinato un cambiamento significativo nella catena delle comunicazioni umane: «la prima era in gran parte biologica (vocalizzazioni, gesti, linguaggio), relativamente lenta e intrinsecamente rumorosa, e permetteva all’informazione di mutare e degradarsi lungo la rete». E il rumore, la latenza e il decadimento del segnale sono elementi tenuti in gran conto in altri sistemi informativi in cui possono assolvere importanti funzioni, spiegano i ricercatori. «Il rumore può interrompere gli ingorghi e promuovere la cooperazione», e nei banchi di pesci «il rumore e il decadimento sono importanti per prevenire la diffusione di falsi allarmi». Le comunicazioni favorite dal recente progresso tecnologico possono invece «sopraffare i processi cognitivi e produrre decisioni meno accurate», eliminando barriere che in precedenza potevano fungere da filtro sul tipo di informazioni condivise, e possono «alterare e definire i rapporti di potere», con diverse implicazioni. Osservando infine le caratteristiche dei sistemi algoritmici e la loro applicazione, i ricercatori concludono che «stiamo scaricando i nostri processi evoluti di raccolta di informazioni sugli algoritmi, sebbene questi algoritmi siano in genere progettati per massimizzare la redditività, con incentivi spesso insufficienti a promuovere una società informata, giusta, sana e sostenibile».

Intervistati dal sito Recode, Bak-Coleman e un suo collega dell’Università di Washington co-autore dell’articolo, il biologo Carl Bergstrom, hanno risposto ad alcune delle obiezioni più comuni tra quelle generalmente avanzate di fronte a questo genere di riflessioni sulle tecnologie e sui social network. Per descrivere la rilevanza del dibattito, Bergstrom ha posto un esempio della vulnerabilità degli ecosistemi prodotti dai social media rispetto alla disinformazione. «Esce uno studio – una ricerca fatta male – che suggerisce che l’idrossiclorochina potrebbe essere un trattamento per il Covid-19. E, nel giro di pochi giorni, ci sono leader mondiali che promuovono questo medicinale e persone che si adoperano per procurarselo, rendendolo non più disponibile per le persone che ne hanno bisogno per il trattamento di altre condizioni». In sostanza, «puoi avere queste schegge di disinformazione che viaggiano a una velocità senza precedenti e in modi che non si sarebbero mai realizzati prima». Bak-Coleman ha spiegato che parte della loro ricerca si è concentrata sul tentativo di applicare conoscenze multidisciplinari sui sistemi complessi alla struttura attuale delle nostre società. «Una delle cose che sappiamo sui sistemi complessi è che hanno un limite di perturbazione. Se li disturbi troppo, mutano. E spesso tendono a fallire catastroficamente, inaspettatamente, senza preavviso», come per esempio nei mercati finanziari, ha detto Bak-Coleman. Con la differenza che, nel caso dei social network, non abbiamo una teoria su come tutti questi cambiamenti influenzino il modo in cui le persone formano le loro convinzioni e opinioni, e poi le usano per prendere decisioni. «Eppure tutto sta cambiando, sta già succedendo», ha detto Bergstrom.

Recode ha quindi segnalato le obiezioni di chi non ritiene che questa sia davvero una «crisi» e pensa che preoccupazioni simili – e che adesso appaiono allarmistiche – circolassero anche in seguito all’invenzione della stampa a caratteri mobili. Secondo Bergstrom il paragone può essere appropriato, ma sarebbe da considerare più una conferma che una confutazione del discorso portato avanti da lui e dal resto del gruppo di ricerca internazionale. «La stampa ha cambiato radicalmente il panorama politico in Europa. E, come dire, a seconda delle versioni che scegli di seguire, abbiamo avuto decenni se non secoli di guerra dopo quell’invenzione», ha risposto, aggiungendo un’ulteriore riflessione: «Ci siamo in qualche modo ripresi? Certo che lo abbiamo fatto. Sarebbe stato meglio farlo in modo controllato? Non lo so. Può essere. Queste importanti transizioni nella tecnologia dell’informazione spesso causano danni collaterali. Tendiamo a sperare che producano anche un’enorme quantità di bene man mano che avanziamo verso la conoscenza umana e tutto il resto. Ma anche il fatto che tu sia sopravvissuto non significa che non valga la pena pensare a come superarlo senza problemi».

Il punto, prosegue Bergstrom, è che nonostante la nostra possibile fiducia nel fatto che tutto funzionerà, che le persone impareranno a vagliare le fonti di informazione o che ci penserà il mercato a sistemare le cose, non ci sono particolari ragioni per pensare che tutto questo accadrà. «Non c’è ragione di credere che una buona informazione salirà in cima a qualsiasi ecosistema che abbiamo progettato». Bergstrom e Bak-Coleman non negano che sulle piattaforme dei social media possano circolare ed essere condivise informazioni utili e corrette, ma sostengono che le analisi dovrebbero prendere in considerazione «l’influenza netta del sistema». Se qualcuno dice le cose giuste sui social media ma l’influenza netta si rivela essere quella di promuovere i sentimenti no-vax, fa l’esempio Bergstrom, questo «non tiene i social media fuori dai guai». Uno dei primi passaggi necessari per cercare di sviluppare una ricerca approfondita, secondo Bergstrom, è quello di avere e condividere maggiori informazioni. Servirebbe capire come e in che misura le persone siano state esposte alla disinformazione, e in che misura questa abbia poi influenzato i successivi comportamenti online. «Tutte queste informazioni sono detenute esclusivamente dalle società tecnologiche che gestiscono queste piattaforme». Recode sottolinea che la maggior parte delle principali società di social media collabora con ricercatori impegnati in studi sugli effetti delle loro piattaforme sulla società, ma le aziende limitano e controllano la quantità di informazioni che quei ricercatori possono utilizzare.

Un’altra obiezione abbastanza comune, sintetizzata da Recode come l’«argomento uovo-gallina», sostiene che non ci siano prove che Internet sia la causa della polarizzazione del dibattito, e che in generale Internet sia il riflesso di quello che sta fuori, nel «mondo reale». Bergstrom accomuna questo argomento a quelli usati in passato dall’industria del tabacco di fronte alla crescita dei casi di cancro ai polmoni tra i fumatori, prima che gli studi dimostrassero una correlazione con il fumo. «Ora sentiamo la stessa cosa a proposito della disinformazione: “Sì, certo, c’è molta disinformazione online, ma non cambia il comportamento di nessuno”. E poi all’improvviso ti ritrovi un tizio con un cappello con le corna da bufalo che corre per il Campidoglio», ha detto Bergstrom. Secondo Bak-Coleman, Bergstrom e gli altri autori dell’articolo, è necessario che chiunque studi o intervenga nell’ambito del comportamento collettivo, sia nei contesti accademici sia all’interno delle aziende tecnologiche, si impegni a rispettare qualcosa di simile a un «giuramento di Ippocrate» in base al quale le decisioni che hanno un impatto sulla struttura delle società «non siano mai guidate dalle voci dei singoli stakeholder». È necessario sviluppare sistemi sociali «che promuovano il benessere anziché creare valore per gli azionisti requisendo la nostra attenzione collettiva», ha concluso Bergstrom.