Femminismo in corsetto. Il cinema sta riscattando l’immagine delle principesse

di Benedetta Barone (linkiesta.it, 28 gennaio 2023)

Qualcosa sta accadendo tra noi e le storiche nobildonne del passato. Che siano imperatrici, principesse, duchesse, da parte della cinematografia e della serialità sembra si sia diffusa una nuova e inedita ondata divinatoria. Verrebbe subito spontaneo domandarsi: perché? Non ci aveva già pensato la Disney? Superato l’ideale infantile della favola, qualunque bambina cresca con il mito de La bella addormentata nel bosco si rende ben presto conto del modello desueto e distorto in cui ha creduto, e lo abbandona senza rimpianti.

Questo avveniva anche prima dell’avvento del femminismo contemporaneo. Al giorno d’oggi, dopo le polemiche che alcuni hanno ritenuto ridondanti e superficiali a proposito del bacio strappato a una Biancaneve incosciente e dunque non consenziente, è ancora più difficile che si crei un incanto spassionato nei confronti di protagoniste femminili candide e illibate, in attesa del riscatto da parte del deus ex machina maschile. I cambiamenti in seno alla società si respirano e si avvertono anche in assenza degli strumenti per analizzarli. Sovvertire i canoni classici del racconto per proporne un altro più in linea con l’attualità è un’operazione femminista? Oppure rappresenta l’ennesimo tributo a queste donne, a scapito di tutto e in virtù di niente?

La prima a provarci è Sofia Coppola nel 2006. La sua Maria Antonietta, interpretata da Kirsten Dunst, è querula, ingenua, opulenta come un bignè. Si aggira per i corridoi di Versailles ballando gli Strokes. Circondata da una manica di dame da compagnia rumorose, pettegole e fatiscenti, versa champagne sopra coppe di cristallo disposte a piramide, si ubriaca e perde la testa per il capitano delle guardie svedesi. Si fa truccare, vestire, pettinare come una compiaciuta e irresistibile bambola di porcellana. Affonda nelle vasche da bagno divorando pasticcini mentre intorno a lei troneggiano torte rosa confetto a tre piani. Quando l’avvisano di una diceria che poi le sarà attribuita dai posteri come emblema dello snobismo aristocratico, ossia «Il popolo non ha pane? Che mangino brioche!», scoppia a ridere e risponde, serafica: «Ma è una cosa che non direi mai!». Il consorte Luigi XVI, re di Francia, è impotente. Lei si dedica alle gioie della vita di palazzo e alla sua sfrenata vena mondana mentre in sottofondo esplode I want candy dei Bow Wow Wow. Niente di più iconico di un paio di All Star lilla che spuntano nell’inquadratura dei suoi piedi in mezzo a una serie di scarpette dell’epoca con tacco e cinturino.

Poi si superano gli anni Dieci e la sperimentazione diventa provocazione. Da una parte c’è The Crown, resoconto sobrio, dettagliatissimo e imparziale sulle vicende dei reali d’Inghilterra, dall’altra si colloca tutto il resto. Nel 2019 una miniserie di Tony McNamara, già sceneggiatore de La favorita, sceglie Elle Fanning per un quadro breve, ironico e spietato su Caterina La Grande, imperatrice di Russia, despota illuminata che organizza una congiura di palazzo per uccidere il marito e spodestarlo dal trono. Nel 2021 Pablo Larraín presenta Spencer alla Mostra del cinema di Venezia, dove Kirsten Stewart è una Lady Diana magrissima ed efebica in scomode gonne di tweed e camicie inamidate. Nonostante i tentativi di descriverla proliferino fin dalla data della sua morte (nel 1997), tra documentari, riadattamenti televisivi e perfino il recente podcast All Eyes on D, le proiezioni machiavelliche, gli scavi psicologici e le simbologie che da lei irradiano non riescono ad esaurirsi, anzi aumentano esponenzialmente come in un’epica senza tempo.

Nel film di Larraín Diana è allucinata, scontrosa, insofferente. Si aggira per la tenuta di campagna della famiglia reale, nel Norfolk, durante un tetro soggiorno natalizio. La sua andatura è sbilenca, esitante. È costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. La sua esistenza effettiva si smargina, vive dei singulti di schizofrenia in cui medita se lanciarsi giù dalle scale, oppure ingurgita le perle di una collana che le ha regalato il marito raccogliendole col cucchiaio da una zuppa. Ingiunge alla cameriera di andarsene per lasciarla masturbare in pace.

Così accade anche in The Corsage dell’austriaca Marie Kreutzer, sebbene a più di un secolo di distanza, in mezzo alle brughiere taglienti e austere del vecchio impero austro-ungarico. Come Diana, Sissi si sente spiata e osservata, e a sua volta spia, vigila, si ossessiona. Le loro esistenze non sono votate ad altro che alla constatazione obbligata e continua della propria immagine e del proprio aspetto. Scivolano in uno stato depressivo per il quale non esiste rimedio. Diana viene fotografata dai paparazzi, le sue foto escono sui giornali, lei si danna alla ricerca degli abiti giusti da indossare. Sissi cerca disperatamente di restare giovane. «Più stretto, più stretto», ordina alla balia che le allaccia il corsetto dietro la schiena, finché il respiro le si mozza. Una vomita ciò che mangia, l’altra si infligge ostinati digiuni. Le portate elencate ogni giorno all’ora del pranzo e della cena sono un ritornello che giunge quasi nauseante e grottesco. «Fa’ la cortesia di non rigurgitare la colazione nella tazza di un bagno ancora prima del suono delle campane» dice a Diana il principe Carlo.

Sissi osserva stolidamente i piatti che le vengono messi davanti, il marito la incenerisce con lo sguardo, gli altri commensali scherzano in tono sommesso a proposito della sua conclamata anoressia, finché lei abbandona la sala alzando il dito medio. «Le persone hanno sempre paura dell’effimero. E fanno di tutto per attaccarsi a qualcosa, no? A me non sembra di potermi attaccare a qualcosa tranne che a me stessa», confessa a un certo punto. L’effimero corrisponde alla clausura, al tedio insopportabile che sfocia nel progressivo desiderio di scomparire, di darsi la morte. Le vite di entrambe producono soltanto il presente, un immobile e statico hic et nunc. Se niente ha un senso e niente sopravvive, l’unica reazione possibile è il disprezzo, la ferocia, l’opposizione.

Ecco perché l’intento di riscatto femminista di questo tipo di opere risulta ambivalente. La principessa Sissi, la principessa Diana e la stessa Maria Antonietta sono vittime di un sistema patriarcale che le ha interdette della possibilità di darsi un destino; sono condannate a un ruolo di “mera rappresentanza” e non hanno potere espressivo né decisionale; sono chiamate solo a risultare impeccabili ed esteticamente perfette. Ma il privilegio sociale le rende automaticamente dispotiche e distruttive. Dispongono dei figli come della servitù. Se ne appropriano quando sono in vena e poi li abbandonano, li dimenticano. Non contemplano la possibilità di una sorellanza, di una vera solidarietà, se non attraverso la pretesa, il ricatto, la prepotenza.

Diana reclama a gran voce la guardarobiera Maggie alla stregua di un’amica del cuore, la sovrasta coi suoi capricci e le sue richieste. Sissi impedisce alla sua devota dama di compagnia Marie di sposarsi perché ha bisogno di una nemesi: la costringe a prendere il suo posto ai ricevimenti ufficiali, le impone il suo regime alimentare mentre lei progressivamente si ritira, si taglia i suoi lunghi e celebri capelli e comincia a ingozzarsi di ciò che le pare. Di fronte alla perdita dell’illusione della bellezza, l’unica alternativa percorribile è l’annientamento, l’apatia, un distacco cinico e arrabbiato.

Alla fine del film, Diana ammette: «A me piacciono cose che sono un po’ da ceto medio, fuori moda. Amo I miserabili, amo Il fantasma dell’Opera… Amo i fast food. E mi fanno pena i fagiani». Assistere a una principessa Sissi tabagista e in deliquio mentre si masturba distesa tra le lenzuola c’induce a tirare un sincero sospiro di sollievo rispetto alla versione cerimoniosa e melensa proposta da Romy Schneider del 1955. Ma che le loro vite fossero tutto fuorché perfette era una conclusione a cui eravamo giunti anche da soli. E ci era chiaro anche che essere ricche e sposate non equivale affatto ad avere tutto.