Forse il sostegno dei calciatori turchi a Erdogan non è così sentito

di Vincenzo Martucci (agi.it, 15 ottobre 2019)

L’Europa libera s’indigna, il mondo libero s’indigna, l’umanità s’indigna. La guerra scatenata dai turchi contro i curdi sul confine con la Siria ci invia immagini terrificanti, con migliaia di civili in fuga, devastazioni, morti, distruzioni e, in parallelo, ci mostra sconvolgenti manifestazioni di solidarietà al presidente Erdogan da parte di atleti turchi che ospitiamo nelle nostre squadre.

Ph. Ozan Kose / Afp / Getty Images
Ph. Ozan Kose / Afp / Getty Images

Juventus e Roma

Uno guarda i gesti dei calciatori turchi all’inno nazionale delle qualificazioni agli Europei contro l’Albania e poi contro la Germania, e quel saluto militare diventa uno sfregio sulle ferite aperte che colpiscono i nostri occhi dai telegiornali.

Uno guarda il calciatore Cenk Sahin che si affianca pubblicamente all’esercito di Erdogan e, su spinta dei tifosi, è “invitato” dalla sua squadra, il St. Pauli di Amburgo, ad allenarsi con altri, e trova subito casa – ma guarda un po’ – al Basaksehir Istanbul, molto vicina proprio al presidente turco.

Uno guarda il tweet dello juventino Merih Demiral che travisa la nostra visione delle cose, proponendo la foto di un soldato turco che porge la mano a una bambina e un messaggio per noi farneticante, e storce la bocca, ancor più amareggiato: “La Turchia condivide circa 911 chilometri di confine con la Siria, che è un corridoio di terroristi. Pkk e Ypg sono responsabili della morte di circa 40.000 persone, inclusi donne, bambini e neonati. La missione della Turchia è per prevenire quel corridoio di terrore a cavallo del confine meridionale e di riportare due milioni di siriani in territori sicuri”.

Uno guarda il romanista Cengiz Under e il suo saluto militare di solidarietà ai connazionali in guerra al momento per ristabilire la sicurezza del suo Paese, e prova un senso di umanissimo fastidio.

Sukur e Kanter

Fortunatamente, ci sono voci contrarie anche fra gli atleti turchi più famosi. A partire, per restare nel calcio, dall’ex attaccante di Inter, Parma e Torino, Hakan Sukur, per continuare con l’asso Nba, Enes Kanter. “La mia è una lotta per la libertà, non conta ciò che posso perdere, l’importante è che vinca l’umanità”, puntualizza Sukur, contro il quale le autorità di Ankara hanno spiccato un mandato di arresto, tutti i suoi beni sono stati sequestrati ed è stato costretto ad abbandonare il Paese.

Così come Kanter, che ultimamente ha evitato persino di giocare a Londra per paura di incappare in un arresto da parte dell’Interpol; ha twittato: “Non vedo o parlo con la mia famiglia da cinque anni, mio padre è in carcere, i miei familiari non possono trovare lavoro, mi è stato revocato il passaporto, su di me pesa un mandato d’arresto, la mia famiglia non può lasciare il Paese, ricevo minacce di morte tutti i giorni, sono stato attaccato e molestato, in Indonesia hanno cercato di rapirmi. LA LIBERTÀ NON È GRATUITA”.

Macchina nazionalistica

Erdogan ha un occhio attentissimo sullo sport come veicolo di pubblicità, ha fatto enormi investimenti sul calcio e su altre discipline. Come sottolinea il premio Nobel turco Orhan Pamuk: “Magari da noi il calcio fosse l’oppio dei popoli, è invece una macchina per produrre nazionalismo, xenofobia e pensiero autoritario”.

Perciò, gli atleti turchi che esprimono pubblicamente la loro solidarietà alla “Primavera di pace”, iniziata il 9 ottobre per ritraslocare in Siria due milioni di profughi, a costo di orrori e sofferenze indicibili, probabilmente stanno combattendo a loro volta una battaglia per salvare sé stessi e le loro famiglie. Senza per questo assolverli, ma per interpretare atteggiamenti che sembrano incomprensibili. E ci indignano quanto le devastazioni e le morti che vediamo.