Il corpo del Papa e chi lo cura

di Enrico Cicchetti (ilfoglio.it, 5 luglio 2021)

«Sua Santità Papa Francesco è in buone condizioni generali, vigile e in respiro spontaneo», ha garantito il direttore della Sala stampa vaticana. «L’intervento chirurgico per la stenosi diverticolare effettuato nella serata del 4 luglio ha comportato una emicolectomia sinistra ed ha avuto una durata di circa tre ore. Si prevede una degenza di circa sette giorni salvo complicazioni». Il chirurgo che ha operato il Papa al Policlinico Gemelli di Roma — che, per la sua ripetuta frequentazione, Giovanni Paolo II ribattezzò «il Vaticano n. 3», dopo il Palazzo apostolico e la residenza di Castel Gandolfo — si chiama Sergio Alfieri, ha cinquantacinque anni e fino ad oggi ha condotto più di 9mila interventi. E oggi le agenzie battono che il medico proviene dalla «scuola dei chirurghi vicini ai pontefici».

Domenico di Bartolo, “Governo e cura degli infermi”, 1440 (Siena, Spedale di Santa Maria della Scala)

In effetti Alfieri è stato allievo di Giovanni Battista Doglietto, il quale ha fatto parte dell’equipe di Francesco Crucitti, passato alla storia come «il chirurgo del Papa» per aver operato quattro volte Karol Wojtyła. Crucitti, in particolare, diresse l’operazione d’urgenza dopo i due colpi di pistola che Mehmet Ali Ağca sparò contro Papa Wojtyła — «un “cattivo” malato», come disse Crucitti nel 1996, rimproverandolo per il suo stile di vita frenetico, anche dopo le operazioni. Al di là di interventi specialistici, i pontefici hanno un medico personale che svolge un mandato per cinque anni (al momento è il professor Roberto Bernabei). Sono detti archiatri pontifici, un nome che deriva dal termine di corte che indicava il medico di fiducia di un sovrano. Alcuni di loro sono state figure fondamentali per lo sviluppo della disciplina. Professionisti che avevano la possibilità, anche economica, di studiare e sperimentare. Giorgio Cosmacini, medico e filosofo, nel libro La medicina dei papi (Laterza) tenta di ripercorrere l’affascinante rapporto tra medicina e Chiesa cattolica, dall’anno Mille sino a Ratzinger e Bergoglio. Secondo Cosmacini, per esempio, proprio grazie a Papa Silvestro II — prodigio di conoscenza e di scienza che i suoi detrattori nel basso medioevo definirono il «Papa mago» — la medicina, prima annoverata tra le sette arti meccaniche, diventa philosophia secunda e poi un’arte fisica a sé stante. Il libro cita anche il caso di Pio III, che regnò solo poche settimane nel 1503 e che fu il primo pontefice a sottoporsi a un intervento chirurgico per via della gotta, malattia di cui soffrì terribilmente anche Giulio II.

Come sanno i lettori del Foglio già da prima che Alessandro Barbero spopolasse in versione podcast, il Medioevo fu tutt’altra cosa rispetto all’immagine popolare legata alla descrizione datane nei secoli successivi dai filosofi illuministi e rafforzata dal pensiero positivista. L’idea di un’«epoca buia», dominata da despoti e chierici oscurantisti, in cui la razionalità e il pensiero scientifico venivano repressi dal fanatismo religioso, è lontana dal reale. Già Papa Niccolò V, vissuto a cavallo fra Tre e Quattrocento, riscopriva, per esempio, un grande scrittore latino di medicina, Aulo Cornelio Celso, e il suo trattato De re medica che, pubblicato nell’edizione principe di Firenze nel 1478, rimase testo di medicina per secoli in molte scuole. Alla fine del XV secolo e al principio del XVI, in Italia si parlava in tutte le corti di Giovanni da Vigo di Rapallo, chirurgo del già citato Giulio II, autore di una Practica copiosa in arte chirurgica (1511) che, più volte tradotta, ebbe oltre quaranta edizioni. Con lui fa progressi la tecnica della medicazione delle ferite, per la quale detta norme che appaiono razionali anche oggi. Erano chierici tre grandissimi maestri della chirurgia medievale: Guglielmo da Saliceto, Lanfranco da Milano e Guy de Chauliac. Quest’ultimo è considerato uno dei più importanti chirurghi di tutti i tempi e molte delle sue tecniche restano tuttora valide.

La Chiesa medievale non proibiva tanto la pratica medica, quanto l’inseguimento del «vile guadagno di denaro» — come recita un canone approvato nei concili regionali di Clermont (1130) e di Reims (1131). Si metteva cioè all’indice l’avidità, il lucro e l’arrogante ricerca della gloria. Durante i primi secoli del Medioevo e fino al XII secolo, i monasteri furono i principali luoghi di conservazione di importanti testi di medicina antica, come quelli di Ippocrate, Alessandro di Tralle, Oribasio e Galeno. Era facile però che i monaci lasciassero i loro chiostri per esercitare in giro la professione medica, molto remunerativa. Per questo si vietò ai monaci e ai canonici regolari di praticare la medicina in cambio di denaro, e successivamente s’impose loro l’obbligo di non allontanarsi dai loro monasteri. Queste proibizioni però non riguardavano i membri del clero secolare, che avevano cominciato a studiare e praticare la medicina sin dal X secolo, soprattutto negli ospedali associati alle cattedrali. Quel principio «Ecclesia abhorret a sanguine» (La Chiesa aborre dal sangue), attribuita al canone del concilio Lateranense del 1215, per sostenere che la chirurgia sarebbe stata vietata ai chierici, secondo la revisione storica sarebbe del tutto inventata. Uno scritto di Innocenzo III pubblicato nel 1212 e inserito poi nelle Decretales illustra il pronunciamento del Papa sul caso di una donna, morta per non aver seguito le prescrizioni di un monaco che l’aveva operata. Il Papa stabilì che se il religioso, che fosse davvero esperto e zelante nella medicina, avesse agito mosso soltanto dalla pietà e non dalla cupidigia, non avrebbe dovuto essere punito in alcun modo. Inoltre, lo studio della medicina non costituiva un ostacolo per la carriera ecclesiastica: Teodorico de’ Borgognoni (1206-98) era un importante medico e fu vescovo di Cervia, e anche Papa Giovanni XXI era precedentemente stato un medico.