Il populismo di oggi? L’aveva spiegato Umberto Eco, parlando del “fascismo eterno”

di Matteo Bianchi (linkiesta.it, 3 settembre 2018)

Sarà stata la noia estiva, oppure il crescendo endemico delle Destre europee a far aumentare le vendite in una città di provincia come Ferrara de Il fascismo eterno (La nave di Teseo)? Con lo sguardo di chi sa accettare il suo tempo senza perdersi e senza vergogna, Umberto Eco apre il pamphlet ricordando la sua infanzia fascista, quando ascoltava con ammirazione i discorsi di Mussolini.Eco_fascismo_eternoE in classe doveva impararne a memoria i passi più significativi, magari al posto di una poesia di Leopardi. Un’esperienza di sicuro radicale, ma tutt’altro che inutile, poiché gli ha insegnato a liberarsi dalla retorica. Alternare durante un’orazione i desiderata che fanno gola al vulgus ai risultati ottenuti concretamente sul campo è un passaggio consueto anche nella demagogia spiccia alla quale si assiste in tv; il duce, però, era solito calcare la mano su questioni marginali che proprio nell’immaginario instaurato avevano un peso sostanziale. Se gli italiani degli anni Trenta volevano conquistare a tutti i costi per far grande la nazione nel mondo, sperperando risorse alla faccia della povertà montante, gli italiani di oggi non vogliono essere conquistati da chi fugge dalla povertà, dalla siccità, dalla disperazione di un’Africa allo stremo. Il ministro Salvini spesso fa il verso ai protagonisti di un passato drammatico, non ancora remoto, consapevole tanto della distanza che divide un regime da una democrazia parlamentare, quanto dei parallelismi che permette la fruizione costante del Web. Alzare la voce, spararle sempre più grosse e usare l’ironia per dissacrare, come la t-shirt che sbeffeggiava la sconfitta del Pd a Pisa, Siena e Massa con la Bella ciao della Resistenza, o l’aver querelato Saviano in qualità di ministro della Repubblica e non in quanto rappresentante di una minoranza politica che ha “vinto” le elezioni con il 18%, distoglie l’attenzione dall’uso effettivo che fa del potere; senza fermarsi a contare i continui attacchi ai barconi, gli specchietti per le allodole. D’altro canto, uno degli errori comunicativi del Pd di emanazione renziana è stato proprio dare per scontato che le migliorie difficilmente realizzabili non fossero da sbandierare come imminenti; o peggio, che siano state taciute completamente, ha fatto sentire gli italiani in difficoltà in uno stato di abbandono e in balìa della crisi. Il ventennio berlusconiano e la to do list del Movimento 5 Stelle, al contrario, si somigliano per questo, perché mettono il focus su riforme che il Paese nel prossimo biennio non potrebbe sostenere economicamente, così la flat tax o il reddito di cittadinanza. A preoccupare uno degli intellettuali più lucidi e lungimiranti del secondo Novecento sono state le abitudini culturali, unite agli istinti oscuri e alle pulsioni insondabili che hanno permesso al regime fascista e alla sua ideologia di arrivare in vetta. Orientare il protagonista di Per chi suona la campana (1940) contro i falangisti di Franco, chiamandoli fascisti, per Hemingway significava reagire a un determinato dispotismo. Eco definisce il Fascismo nostrano un totalitarismo “fuzzy”, ossia confuso e impreciso: a differenza del Nazismo e dello Stalinismo, che avevano un manifesto politico e dei precisi riferimenti filosofici e artistici per dare solidità ai loro fondamenti ideologici, il Fascismo si basava soprattutto sulla capacità retorica del duce e nel corso della sua storia si è più volte contraddetto. Da ateo coerente e militante, Mussolini finì per firmare il concordato con la Chiesa porgendo ai vescovi i gagliardetti fascisti da benedire. Finito il suo leader, come Hitler aveva intuito sin da subito, il partito non avrebbe avuto la possibilità di rigenerarsi. Era folkloristico, era sorto proclamando un nuovo ordine rivoluzionario, pur essendo finanziato dai proprietari terrieri più conservatori. In sostanza, non capitava di rado che Mussolini proclamasse a gran voce una scelta e facesse l’opposto, o meglio, quello che conveniva al mantenimento della sua leadership. Tuttavia, per quanto ideologicamente sgangherato, il Fascismo era emotivamente legato ad alcuni archetipi: il culto della tradizione, ad esempio, che ha motivato persino gli esordi della Lega inneggiando ai Celti che si erano stanziati nella valle del Po prima dei Romani. E qualsiasi esito di tradizionalismo che si rispetti prende comunque il largo dall’attaccamento al “sangue” e alla “terra”, da un senso primordiale di radicamento al territorio. L’humus che ha ingrossato le fila dei fascisti è stata la frustrazione delle classi medie, tanto da far predire a Eco che i vecchi “proletari” diventati piccola borghesia sarebbero stati un uditorio ideale. Ci pensa poi il nazionalismo a fare da collante: l’appartenenza allo stesso Paese è l’unico privilegio che accomuni tutti coloro che sono privi di una qualunque identità sociale. Per sentirsi tali, però, bisogna avere dei nemici e fare appello alla xenofobia diventa comodo, instaurando la cosiddetta “ossessione del complotto” rispetto a chi potrebbe sottrarre risorse e lavoro ai cittadini italiani, come i Rom e gli immigrati odierni ad esempio, che al contempo minerebbero pure la nostra serenità quotidiana. La vigilia di Ferragosto il ministro Salvini twittava: «Il sindaco di Napoli vuole ospitare (e mantenere) altri immigrati in città. Paga lui? A Napoli non ci sono cittadini in difficoltà, senza casa e senza lavoro? Ah, già, per certa sinistra è più importante pensare agli immigrati che agli italiani…». Al nemico dentro i confini nazionali ne deve corrispondere uno all’esterno, come lo spettro dell’Europa o degli Stati che vorrebbero una zona euro più compatta economicamente, come Germania e Francia, della quali va necessariamente disprezzata l’erba troppo verde. Lo scorso 12 agosto sempre Salvini twittava: «Con questo calduccio, uno spuntino a base di spettacolare mozzarella di bufala campana ci sta. Alla faccia dell’Europa che vuole portarci in tavola ogni tipo di schifezza, io magio (e bevo) italiano!». Dietro gli schermi dei nostri televisori o dei nostri pc, Eco intravedeva già il rafforzamento di un possibile “populismo qualitativo”, per cui «la risposta emotiva di un gruppo selezionato di cittadini può venire presentata e accettata come la voce del popolo». Quando lo ha argomentato correva il 1997 e Grillo non aveva ancora poggiato il primo pixel del Movimento 5 Stelle, né Di Maio era stato candidato premier dopo 490 preferenze su un sito. Infine Eco sottolinea la questione linguistica, l’esigenza da parte del potere di semplificare la comunicazione, di renderla immediata, essenziale, lapidaria per essere comprensibili a chiunque, ma soprattutto degna di memoria. E gli slogan sono difficili da dimenticare: «Voglio un Paese che va avanti, non che torna indietro», usa Salvini per chiudere più di un post, ma ancora: «Lo Stato deve tornare a fare lo Stato» e il continuo «dalle parole ai fatti». La debolezza culturale del Fascismo prelude a un’altra considerazione, alla mancanza di spirito critico da parte di chi ne ha permesso l’instaurazione, quasi che gli italiani di allora si fossero accontentati di risposte che miravano alle loro pance, per essere saziati lì per lì, senza una reale lungimiranza, senza un leader che pensasse al loro bene futuro. Non solo, che in mezzo alla confusione ideologica si perda di vista una verità condivisibile, una base comune, cosicché ogni pretesto sia buono per giustificare pochi, identificabili con una lobby mafiosa, o addirittura un individuo soltanto e il suo entourage mediatico. Libertà, secondo Italo Calvino, sta nel rispettare le regole all’infuori di noi per non rischiare di nuocere al prossimo. Libertà, secondo Umberto Eco, sta nella pluralità di pensiero, nell’accettare la diversità e nel non imporre la propria visone di realtà sulle altre per paura o poiché la si ritiene via più breve. Il timore con cui ci ha lasciato è che il fascismo possa tornare sotto abiti civili, mascherato sotto spoglie più innocenti.