L’attivismo su Instagram serve davvero a qualcosa?

di Niccolò Carradori (esquire.com, 23 settembre 2021)

Ecco un esempio calzante di inception dell’era mediatica che stiamo vivendo: l’altra sera Alexandria Ocasio-Cortez, al Met Gala di New York, ha indossato un abito da sera di Brother Vellies con sopra stampato lo slogan “Tax the Rich”, poi ha postato la foto su Instagram con una didascalia il cui incipit citava una famosa frase-concetto del sociologo canadese Marshall McLuhan, “the medium is the message”. Ecco, è difficile comprendere in senso lato quale fosse il medium in questione a cui Ocasio-Cortez si riferiva — se l’abito (palesemente) o in realtà (involontariamente) il post di Instagram — perché alla fine di questo anno del Signore 2021 è chiaro a tutti che Instagram è il vero collettore della tipologia di message che Ocasio-Cortez voleva dare.

Ph. Noam Galai / Getty Images

L’abito in sé non è il vero medium che permette al messaggio di essere intercettato, l’abito postato su Instagram sì. È lì che i sostenitori di Aoc lo hanno principalmente visto, è lì che è stato sostanzialmente propagato, ed è lì che i suoi dendriti comunicativi formeranno nuove connessioni di commenti, slide, reel, meme e live di dibattito. L’attivismo, di qualsiasi natura sia, oggi si fa su Instagram. Chiariamoci: sono pienamente consapevole del fatto che nel mondo esistano attivisti, associazioni, centri sociali e spazi condivisi in cui si fa attivismo “duro e puro”, non sono così sprovveduto, ma non siatelo nemmeno voi: Instagram riveste un ruolo enorme nella percezione di massa dell’attivismo, di cosa sia e di come si possano articolare le sue transustanziazioni e conseguenze reali. Non soltanto perché è una piattaforma che consente ad ogni persona di poter esprimere le proprie idee (se ci si attiene a determinate policy e foto dei capezzoli, sia chiaro) e metterla in comunicazione con molte altre che la pensano alla stessa maniera, ma perché la sua struttura, la sua estetica, i suoi strumenti, la sua natura scalabile di influenza e (“perché no?”) monetizzazione hanno creato un nuovo modo di fare attivismo. Tempo fa, durante una live, una instagrammer molto attiva nell’ambito della sex-positivity si è difesa dalle accuse di sponsorizzare determinati brand sul suo profilo, quindi di monetizzare la sua attività, con il seguente concetto: “io non sono un’attivista, sono un’influencer di tematiche legate all’attivismo”.

Già il fatto che possa esistere questo distinguo, che possa essersi formato un nuovo ruolo intermedio tra attivismo e divulgazione, è una cosa interessante su cui riflettere. Se prendiamo per buona la citazione offerta da Ocasio-Cortez, Instagram ha un ruolo determinante di per sé nella strutturazione e assimilazione di messaggi come “tassiamo i ricchi” o “peg the patriarchy” o “black lives matter”. Per McLuhan, infatti, i media non hanno mai un ruolo neutrale: fungono da stimolanti per l’attenzione del pubblico e, al tempo stesso, condizionano la sua intelligenza, il suo modo di pensare. Creano dei pattern entro i quali si articola la comunicazione, fatta di tempi e stilemi. E lasciatemelo dire: da millennial italiano frustrato — pieno di velleità irrisolte, teorie bucoliche sulla vita culturale e il progresso sociale, passioni e abitudini passatiste che mal si sposano con il presente (sono stato un militante della generazione hipster, compro ancora le agende e scrivo a mano) —, nutro serissimi dubbi sulla reale utilità dell’attivismo su Instagram. Sicuramente è perché sto invecchiando, sicuramente è perché non mi so adattare e ho ancora le branchie, ma quasi tutto l’ecosistema di quello che alcuni spacciano come una nuova forma di Sessantotto a trazione Gen Z (l’Activistagram) mi crea diffidenza. Forse ho solo bisogno di essere aiutato a capirlo fino in fondo, e sarei grato se qualcuno mi facesse questo favore, ma per fare in modo che accada devo prima esplicitare i miei dubbi.

Partiamo dal principio, ovvero dal sostrato di questa nuova ondata di attivismo e protesta digitale: i giovani. Ci troviamo di fronte ad una nuova generazione di giovani molto sensibili a determinate tematiche, che stanno facendo sentire la loro voce. Il loro nemico numero uno, come tutti sappiamo (visto che lo è da sempre per i virgulti protestatori), è il grande maschio bianco occidentale, ricco, cisgender etc. etc. Che io solitamente individuo, nella mia fantasia, nell’immagine di un 60enne londinese che gestisce un importante hedge fund, discendente di un’antica famiglia di industriali ed è stato istruito a Eton, con una manor house nel Dorset e tanti modelli di scarpe Oxford fatte a mano. Chiamiamolo Randolph. Ecco, secondo la narrazione corrente, Randolph avrebbe i minuti contati: si sta sollevando un clima di consapevolezza intersezionale che spazzerà via lui, i suoi privilegi, l’intelaiatura della sua influenza massonica e le sue Oxford fatte a mano. E su Instagram sembra proprio che sia così: gli zoomer spadroneggiano e sono molto più skillati rispetto a Randolph; lui magari ha solo un piccolo profilo in cui posta ogni tanto il ponte di un panfilo o un filet mignon, niente di più. Non ha voce, non è virale, e questo — chiamiamolo così — Capitale Digitale è un’arma da usare. Il problema, per me, è che manca totalmente il principio di causalità nello sversamento di questa supremazia digitale nel mondo reale. La volontà di potenza degli attivisti a trazione Gen Z di Instagram su cosa si basa?

Perché io, probabilmente sbagliando, credo non sia mai esistita una generazione di giovani meno pericolosa di questa per il grande maschio bianco Randolph. Non è un caso che il Sessantotto e il Settantasette siano stati fatti dai Baby Boomer: se lo sono potuti permettere (anche se poi gli effetti sono stati incisivi fino a un certo punto) non tanto perché avevano determinate idee o strumenti, ma perché erano tanti. Un volume sociale che poteva essere rintuzzato, ma impossibile da ignorare: erano voti democraticamente determinanti, erano spesso più istruiti dei loro genitori, vivevano il massimo slancio della vita in un segmento storico di grande crescita economica e di impiego giovanile che gli consentiva di poter accumulare patrimonio proprio. Tutto sommato, andando al nocciolo della questione, avevano molto più potere reale (infatti sono diventati loro il nostro Moby Dick). Gli zoomer sono pochi rispetto agli anziani conservatori, hanno un’influenza economica molto sottile, e nel conflitto generazionale sembrano destinati a fare la fine della cavalleria polacca quando caricò i panzer nazisti al galoppo. Ma i Baby Boomer non avevano solo questo: a vent’anni erano anche più creativi e iconoclasti. Pensiamo alle sottoculture nate in quell’epoca, come il movimento hippie o il punk (ma anche a realtà meno lontane, come quella dei free party per la tarda Generazione X e i primi Millennials): non erano formati solo da musica, teorie e mode. Prevedevano la creazione e la condivisione di nuovi spazi e dimensioni sociali. Di atti di protesta e occupazione fisici che avevano un impatto: pensiamo alla resistenza non violenta, alle folle oceaniche, alla riappropriazione e conversione coatta degli spazi urbani.

Realtà che i giovani riottosi del 2021 non conoscono: occupano e sfruttano spazi creati appositamente per loro da grandi gruppi di interesse. Se non è Instagram si spostano su Tik Tok, se non è YouTube sarà Twitch: qual è la differenza tra queste piattaforme, nella sostanza? Che invece delle foto e delle card si usano i balletti? Che invece di un video di 60 secondi ne puoi postare uno da 30 nel feed? Sono mere scelte di consumo eterodirette dal principio di domanda-offerta, non c’è alcun elemento di rottura. E sapete chi c’è dietro l’offerta? Non il guru della silicon valley che si è inventato l’ennesima applicazione innovativa, ma gli investitori — grandi maschi bianchi, ricchi, cinsgender etc. etc. — che gli hanno permesso di mettere la sua idea sul mercato e che mantengono una lauta percentuale sui dividendi. Quindi spiegatemi: dove sbaglio quando penso che l’unico effetto reale che hanno le migliaia di slide contro il patriarcato sulla vita di Randolph sia quello di fargli guadagnare una fracca di soldi? Il capitalismo ha questo potere, assorbe sempre tutto. Anche il movimento hippie, anche il punk sono stati assorbiti senza pietà: ridotti a stilemi e iconografie buone solo per vendere jeans, giacconi di pelle e chitarre. Ma almeno è successo dopo un po’, una breve folata di novità e impatto sul reale c’è stata.

Le dinamiche che innervano l’Activistagram sono nate in seno al sistema, già digerite. Lo dimostra il fatto che i grandi brand, le multinazionali, accompagnano mano nella mano questo processo con grande benevolenza: la Juventus ha finanziato un podcast sul razzismo, Amazon produce contenuti pop sul femminismo, i grandi marchi della moda sfruttano il soft power di questo movimento intersezionale per legarci la propria immagine e vendere scarpe e magliette a tutti. Spesso pagando direttamente gli attivisti per fare pubblicità. Cosa c’è di male? Devo essere sincero: non so nemmeno articolarla in maniera definitiva questa diffidenza nell’amicizia corrisposta fra attivisti di Instagram e multinazionali, riesco solo a pensare che se Martin Luther King fosse stato pagato dalla Nike mi sarebbe sembrato un po’ meno autorevole, ecco. Non siamo ancora arrivati agli anni sponsorizzati dai pannolini, come in Infinite Jest, ma non stiamo messi comunque bene. Forse, se il sistema che vorresti combattere non ti teme ma ti asseconda è perché sa che non sei in alcun modo una minaccia? Sono sciocco io? Credete che, come Neo in Matrix, la rivoluzione si faccia da dentro? In bocca al lupo. Non lo dico da anima pura, anzi: faccio il giornalista, e spesso campo di branded content, però credo che sia importante tenere presente tutto questo e non fingere che stiamo vivendo un’altra vita e altri tempi. Per come la vedo, l’autonarrazione può essere molto pericolosa, specie quando spinge i pochi, i deboli e i mansueti a dirsi “siamo tanti, siamo forti, siamo ribelli”. E credo non sia un caso che tutto questo si esplichi soprattutto sul social più autonarrativo che esista, tornando a Ocasio-Cortez e McLuhan.

Ma ricopriamoci di nuovo, per un secondo, il volto con il velo di Maya, fingiamo che non abbia mai messo in campo le premesse di cui sopra. Ipotizziamo che non ci sia autonarrazione sulla volontà di potenza, e che questo movimento di attivismo su Instagram viva e lotti solo tramite le prese di coscienza. Una guerriglia esistenziale in stile vietnamita: non possiamo sconfiggere il Grande Maschio Bianco, ma possiamo formarci tra di noi, aspettando che la natura faccia il suo corso e lasci spazio ad una nuova società più tollerante e consapevole, composta da illuminati. Al di là del fatto che gli ultimi due anni hanno dimostrato in lungo e in largo quanto la società sia disposta a sacrificarsi (giustamente, eh) per salvare la vita dei potenti anziani — ma questo è un altro discorso —, anche vivendo questa illusione sbatteremmo la testa contro il muro. Credo fermamente che le mie premesse siano inutili, perché non esiste alcun vero movimento a trazione Gen Z: è autonarrazione anche quella, più profonda, alimentata dalla natura stessa delle piattaforme che utilizziamo. Uniformare le varie generazioni in poche caratteristiche è già di per sé stupido — i sessantottini stessi avevano una marea di coetanei democristiani e iper-conservatori —, ma lo è ancora di più per i giovani d’oggi: sui social non esiste osmosi, ma solo parrocchie e bolle d’interesse che predicano ai convertiti.

Sbaglio? Non so voi, ma io ho sempre l’impressione che tutta questa storia della divulgazione sui social si limiti al massimo ad ampliare concetti che chi segue ha già assimilato di per sé. Che non ci sia alcun risveglio delle coscienze (e quindi alcun cambiamento), perché chi legge e guarda sa già quasi tutto (o, in linea di massima, è già a favore della causa che si vuole perorare), mentre gli altri semplicemente nemmeno ricevono il messaggio (se non di rimbalzo e manipolato, accogliendolo poi puntualmente con acredine). Anzi sono ancora più pessimista e cinico (ma in fondo al cuore spero davvero di sbagliarmi, credetemi): credo che spesso sia coinvolta una dimensione di self-positioning che va ben oltre i contenuti, e che questi ultimi passino molto in secondo piano. Mi spiego meglio: è ben noto il fatto che una delle caratteristiche più peculiari di questo nuovo moto di proteste e social justice sia quella di non avere leader ben riconoscibili. Ce ne sono tanti e il loro numero continua a crescere, perché tutti vogliono giocare al gioco e influenzare: ego ipertrofico a parte, da un lato è un concetto molto positivo e democratico, dall’altro spinge a supporre che senza leadership riconoscibili sia complesso formare una direzione che porti a svolte concrete.

Dove porta l’attivismo odierno sui social? Dove sta andando? Come si muove? Perché a me appare statico, una bolla. Questo mio pessimismo è alimentato, forse perché non ho una giusta visione di lungo periodo, dalle inferenze oggettive su come sta cambiando la società patriarcale sotto i nostri occhi. A me sembra che proceda a gonfie vele. Mentre il post di Ocasio-Cortez colleziona milioni di cuori, e produce milioni di epigoni digitali come un frattale che si autoreplica al suo interno, i nostri stati-nazione nemmeno prendono in considerazione l’ipotesi di una tassazione progressiva più pesante, e hanno già scelto la strada del debito. È cosa fatta, non è un’ipotesi: per riprenderci dalla crisi, ora come ora, abbiamo un piano di investimenti pubblici basati sulla contrazione di debito. Il che significa che poi, ovviamente, dovremo pagarlo. Chi lo farà, Randolph o i giovani ribelli di Instagram?