Parasite, Gangnam Style, Bts: la Corea del Sud ha conquistato l’Occidente

di Ilaria Bellantoni (linkiesta.it, 29 febbraio 2020)

L’inizio della fine della (sub)cultura pop occidentale porta in dote un nome, Mino: cioè il rapper della Corea del Sud che alla scorsa Paris Fashion Week è stato scelto da Virgil Abloh in persona per aprire la sfilata uomo di Louis Vuitton; e ha letteralmente spaccato su Instagram e YouTube. Ah, in prima fila c’era anche Gong Yoo, il Brad Pitt di Seoul che, nonostante i suoi quarant’anni, ha provocato la solita pioggia milionaria di like.BtsLisa, aka Lalisa Manoban, che un anno fa aveva bloccato il traffico mentre stava arrivando da Miu Miu, la scorsa settimana non solo era alla sfilata di Prada, ma ha avuto l’onore/onere di fare nientepopodimenoche il take over, cioè prendere il controllo dell’account Instagram di Miuccia e del suo marchio. Infine, un ultimo dettaglio: Lee Ji-eun, meglio nota come IU, indossava un delizioso vestitino rosa di Gucci e alla sfilata di Alessandro Michele era seduta in prima fila accanto a Dakota Johnson e Florence Welch. Se tre indizi fanno una prova, quattro giovani celebrità sudcoreane miliardarie sono la dimostrazione vivente che la Corea del Sud è il luogo dove nascono gli influencer che contano di più al mondo.

Questo nonostante sia il secondo Paese dopo la Cina più colpito dal Coronavirus, che ha messo in ginocchio aziende come Samsung ed LG. Il governo non ha trovato però opportuno limitare la libertà di movimento delle persone e i ragazzi di cui sopra sono riusciti a farsi fotografare alle sfilate di New York, Londra, Milano e Parigi. È la giovane democrazia di Moon Jae-in che non blinda le frontiere e isola le città, ma dà una chance alla responsabilità personale e sceglie il contenimento libero. Quindi manda i Bts in tour in America e chissenefrega. Del resto la band ha dato all’economia di casa 4,65 miliardi di dollari vendendo dischi (l’ultimo, Map of the soul: 7), biglietti dei loro concerti, merchandising e secondo l’istituto di ricerche Hyundai vale lo 0,3% del prodotto interno lordo del Paese. Non solo, pare che da qui al 2023 porteranno nelle casse sudcoreane qualcosa come 48 miliardi di dollari. Per chi non li conoscesse i Bts sono stati paragonati ai Beatles e ai Jackson 5, perché nessuno dopo di loro era riuscito a riempire gli stadi tanto velocemente. Per dire. Sette concerti negli Stati Uniti sono andati sold out superando i biglietti venduti da pop star da tutto esaurito come Ariana Grande e Taylor Swift. E i Bts indossano Givenchy, Valentino, Chanel e Gucci, ma i costumi di scena sono disegnati da Kim Jones, leggi: Christian Dior. Rosé, una delle ragazze del gruppo musicale Blackpink, invece, è la nuova ambassador di Saint Laurent.

Sì, l’alta moda va pazza per le stelle del Korean Pop, cioè del K-pop. Qualcuno si chiede: perché? La colpa è di Psy, quello del Gangnam Style, il primo tormentone sud-coreano che nel 2012 passava semplicemente per il solito assillo musicale tamarro da una stagione e via. Invece, era solo l’inizio della conquista del mondo. Programmata con una strategia fatta di investimenti, propaganda e “potere dolce”. Che comincia proprio mentre la Corea del Sud esce da una terribile crisi economica e sul principio degli anni Novanta crea la divisione Cultura popolare all’interno del ministero della Cultura. Il che significa, in soldoni, 500 milioni di dollari l’anno usati con una precisione aritmetica per finanziare musica, fumetti, film, perfino moda. L’obiettivo è alimentare con il soft power un nuovo mercato per l’entertainment in cui la South Korea si costruisce un’immagine cool addosso, usa la tecnologia per correre più veloce degli altri, diventa un brand da esportare in Asia prima e nel resto del mondo poi.

Un po’ come aveva fatto Hollywood per diffondere l’immagine dell’America, la nuova frontiera della fantasia e della modernità negli anni del boom economico. Quindi i coreani sfruttano il potere inarrestabile della… libertà. Che è libertà di creare, soprattutto. E a un certo punto le serie tv in costume come Hur Jun, storia di un coreano qualunque che diventa medico reale, fanno il 64% di share e diventano il pane televisivo per milioni di giovani, compresi incredibilmente quelli iracheni, appena usciti dalla Guerra del Golfo. Quando nel 2016 va in onda Descendants of the Sun, altra serie miliardaria, assurge allo stato di cult prima in Asia e poi nel resto del mondo: anche se si vede in streaming in lingua originale e con i sottotitoli. E insomma, il Wall Street Journal la scorsa estate sentenzia: «Le star sudcoreane sono i principali influencer globali».

È così. Ancor prima che quel genio di Bong Joon-ho girasse un film per Netflix, l’assurdo Okja. Si fa presto, oggi, a dire che i registi sudcoreani sono strafighi: il suo Parasite è stato il primo film in lingua non inglese della storia a vincere l’Oscar come miglior film. Solo che non si è gingillato a raccontare la vita straordinaria dei nuovi fenomeni del pop, ma è stato capace di girare in maniera spietata le contraddizioni di una società abitata ancora da disgraziati. Del resto, come dice la madre dei due ragazzi poveri riferendosi alla famiglia ricca: «Sono gentili, certo. Ma lo sarei anch’io se fossi ricca». Che discorsi. Si sa che per strappare una statuetta agli americani si può usare solo l’arma più efficace che l’uomo ha a disposizione da qualche secolo: la verità. E di solito fa sempre un po’ male. Però ormai non c’è più niente da fare. L’hallyu, l’onda, come la chiamano i sudcoreani è meno raffinata della nouvelle vague francese o della rivoluzionaria new wave inglese, ma è assai più potente grazie alla forza irrefrenabile del k-pop. Ci travolgerà, segnatevelo da qualche parte.