Questo Grillo ricorda Berlusconi

di Ugo Magri (huffingtonpost.it, 28 giugno 2021)

Per quanto possa suonare provocatorio, sacrilego, addirittura osceno, c’è tanto in comune tra Berlusconi e Grillo. Il quale rispetto a Conte si sta comportando proprio come l’altro, otto anni fa, aveva trattato il povero Alfano: presi a pedate entrambi per lesa maestà. Variano i personaggi, cambiano le etichette, ma la storia inesorabile si ripete a conferma che la politica ha “corsi e ricorsi”, come direbbe Vico, ovvero il teatrino è sempre lo stesso. C’è un leader carismatico un po’ vecchio e spompato che finge di volersi ritirare, individua il presunto successore, lo incoraggia a farsi avanti, addirittura si incontrano per concordare il passaggio delle consegne e poi sul più bello, quando l’altro ormai si sente in tasca le chiavi di casa, bruscamente lo accompagna alla porta. Addio.

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È la fenomenologia tipica del Fondatore, che non può sganciarsi dalla sua creatura. Separarsene significherebbe morire. Cervello, razionalità e buonsenso spingevano il Cav a farsi da parte perché nel 2013 andava verso gli ottanta con uno sciame di Procure alle spalle. Per giunta Alfano era il più ligio dei suoi seguaci, sempre spalmato a pelle d’orso, disposto perfino a immolarsi come nel famoso “lodo” che doveva garantire a Silvio l’immunità perpetua. Ma si sa: la pancia, cioè le emozioni, ottenebrano la mente. Sul più bello prevalse l’auto-conservazione. Cosicché il padre-padrone ripudiò il figlioccio oltretutto facendogli fare la parte del pirla, sostenendo che Angelino non aveva il “quid”, la marcia in più indispensabile per guidare Forza Italia. Diversamente da allora, stavolta è Beppe che accusa Giuseppe di considerarlo un “coglione” (mai sospetto del genere sarebbe passato per la mente del Cav); però lo schema rimane identico, qualcuno che si considera furbo e qualcun altro fesso: un livello, umanamente parlando, da far cadere le braccia.

Le somiglianze non si fermano qui. Sia Berlusconi sia Grillo si sono allevati la serpe in seno. Alfano il “traditore” era un signor nessuno che nelle stanze di Via del Plebiscito dava una mano a Paolino Bonaiuti, portavoce berlusconiano; fu preso a benvolere e di gradino in gradino, così si racconta, diventò ministro. Pure Conte dovrebbe baciare il terreno su cui Grillo ha posato il piede: fu proposto a Mattarella che, quando gli diede l’incarico di governo, nemmeno sapeva chi fosse. Lui e Angelino spuntati come funghi, sbucati dal nulla, “homines novi” in tutti i sensi, cooptati per una strana congiunzione astrale eppure impazienti di incassare un malloppo politico mai guadagnato né tantomeno sudato, ricevendolo in eredità. Conte nutre oggi la stessa pretesa di Alfano: quella che l’anziano leader si arrenda senza pugnare, rassegnato al proprio destino, anzi felice di levarsi di torno, magari commettendo suicidio per abbreviare la transizione. Purtroppo, evidentemente, non funziona così. Grillo, come Berlusconi, ha fabbricato la sua fortuna con migliaia di show, milioni di “vaffa” e perfino traversate a nuoto tra Scilla e Cariddi. Una fatica bestia; Conte nulla di tutto ciò. Può solo piegarsi o, in alternativa, cambiare aria.

Difatti Alfano, cacciato, fondò un partitino, salvo mollare tutto per dedicarsi agli affari. Oggi fa i soldi e nessuno ne parla più. Gasato dai sondaggi, invece, Conte immagina un movimento cucito su misura per lui (“ConTe” potrebbe chiamarsi); super-leaderista, plastificato, intimamente berlusconiano; un modello che in tanti hanno provato a imitare: da Di Pietro a Renzi, a Monti, a Grillo medesimo. Tra i 5Stelle c’era parvenza di partecipazione gestita, Dio solo sa come, dalla piattaforma Rousseau; caduta la finzione democratica, le liti al vertice vengono trattate come fatti privati. Gli iscritti grillini, come quelli forzisti, sono tappezzeria.

La morale qual è? Che chi li ha visti dal vivo prova rimpianto per i cari, vecchi, bistrattati partiti di una volta. Dove di democrazia interna ce n’era fin troppa. Per emergere si sgomitava, occorreva sporcarsi le mani nelle sezioni, nei comitati, nelle cellule, nei congressi. Si faceva carriera misurandosi con gli elettori. Di nomine dall’alto nemmeno a parlarne. Nessuno si ritrovava al vertice di un partito perché passava di lì per caso; ma nemmeno poteva venirne cacciato con l’etichetta di “ingrato”.