The Staple Singers, la famiglia del gospel che cantò la lotta per i diritti civili degli afroamericani

di Carlo Massarini (linkiesta.it, 26 giugno 2021)

È il 1965. In Alabama, Stato del Sud segregazionista, viene ucciso dalla polizia l’attivista di un Comitato che lavora per ottenere il diritto di voto ai neri. In teoria, il Civil Rights Act del 1964 ha posto fine alla segregazione razziale, ma ai neri viene ancora impedito con vessazioni varie di registrarsi per poter votare. Viene organizzata la prima di tre marce per la libertà, le Freedom March. La prima viene impedita con la forza da vari gruppi razzisti e dalla polizia di Stato, ma le immagini vanno in onda ai tg nazionali e destano scalpore. Dopo la seconda, viene ucciso un altro partecipante. Persino il presidente Johnson interviene per garantire che la marcia sia protetta e, visto che il Governatore Wallace si rifiuta, manda l’esercito.

Ph. Richard Fegley

A capo dei dimostranti, che marciano per le cinquantaquattro miglia che vanno dalla città di Selma alla Capitale dello Stato, Montgomery (che nel 2014 verranno raccontate in un bel film, Selma), c’è un giovane predicatore religioso, Martin Luther King Jr. È il primo passo di una marcia più lunga per i diritti civili e la pari dignità di cittadini che scorrerà, non senza violenze, per decine di anni di storia americana, e che è difficile affermare ancor oggi si sia davvero risolta. Pops Staples, il papà della famiglia Staples, grande gruppo di gospel, e Martin Luther King si conoscono. Si sono incontrati due anni prima a Montgomery, nella chiesa dove King predicava e la moglie Coretta cantava nel coro. Entrambi hanno grande dignità ma sono alla mano, a disposizione delle persone che li avvicinano. Quando Pops ha radunato i figli, la sera, gli ha detto qualcosa che segnerà il corso della loro carriera: «Se lui può predicare certe cose, noi possiamo cantarle». Quando la tv manda in onda quelle immagini, Pops è lontano, la sua famiglia è molto spesso in tour, piccoli feste e chiese dove il loro gospel, col suo verace sapore familiare, sta guadagnando un successo crescente. Sui gradini del Municipio di Mantgomery, alla fine della marcia, il 25 marzo, il reverendo dice: «Il fine che noi cerchiamo è una società in pace con sé stessa, che può vivere con la sua coscienza. Non il giorno dell’uomo nero, né dell’uomo bianco. Il giorno dell’uomo come uomo».

Pops imbraccia la sua chitarra, e scrive Freedom Highway, che debutta il mese successivo alla New Nazareth Church, nel quartiere afro-americano della South Side di Chicago. La canzone parte con la chitarra di Pops, dolce come sempre, il battito delle mani crea il ritmo, pompato dalla batteria e dal basso di Al Duncan e Phil Upchurch. Non è più il canto sensibile e traditional dei primi album degli Staples, a poco a poco diventa un canto trascinante, irresistibile, puro funk ecclesiastico: «Sto marciando sull’autostrada della libertà / Marciando ogni singolo giorno / Ho deciso, e non tornerò più indietro…». E poi, come Pops una volta aveva detto, «i testi li prendiamo dalle prime pagine dei giornali», si cita un episodio di brutale razzismo: un ragazzo di quattordici anni massacrato e sfigurato perché aveva flirtato con una ragazza bianca. La voce di Mavis, la cucciola della famiglia, con tono deciso, senza compromessi, denuncia: «Gente uccisa trovata nelle foreste e nel fiume Tallahatchee / Tutto il mondo si chiede cosa c’è che non va negli Stati Uniti / Sì, vogliamo la pace se può essere trovata / Staremo sull’autostrada della libertà, non torneremo più indietro». È un album (ripubblicato nel 2015 con l’intero concerto) dal vivo spettacolare, intenso. Segna una svolta per la loro musica: il secolare, il politico, i diritti civili che entrano definitivamente in quella che fino ad allora era stata soprattutto musica religiosa. E quel funk è solo l’inizio di un percorso che li porterà molto lontano.

A metà degli anni Sessanta, in verità, già molta strada è stata fatta. Le origini della famiglia sono nel Delta del Mississippi, dove Warren e Florence Staples s’insediano per coltivare la terra, cotone soprattutto. La storia della famiglia, narrata nella magnifica biografia di Greg Kot l’ll take you there, racconta meglio di un libro di Storia il contesto e la lunga marcia della libertà che dovrà fare il popolo nero: schiavitù e violenze, duro lavoro, paghe che non riuscivano a coprire mai le spese e quindi debiti perenni con i datori di lavoro, dover girare alla larga dai bianchi, e dignità e reputazione da guadagnare e difendere. E anche la conoscenza di musicisti che diventeranno leggende, come i bluesmen Charley Patton, Bukka White, Howlin’ Wolf. Roebuck, questo il vero nome del settimo di quattordici fratelli, decide di lasciarsi tutto alle spalle e, come molti musicisti di blues, a ventun’anni mette da parte i dodici dollari per pagarsi il bus per Chicago, e parte. È il 1936: è già un giovane musicista, influenzato dall’equilibrio che ha trovato Blind Willie Johnson fra il deep blues e la spiritualità. Musica trascendente, che attrae il giovane Roebuck e crea le basi per il suo gospel intinto – cosa blasfema per i puristi della congregazione – nel blues. Quando la fidanzatina-diventata-moglie Oceola lo raggiunge con la prima infante, Cleota, nascono in sequenza quelli che saranno anni dopo i membri degli Staple Singers: Pervis, l’unico maschio, Yvonne e Mavis.

Sono anni di tanti lavori, nessuno agevole ma alcuni ben pagati, vita in una comunità che darà al mondo cantanti come Sam Cooke e Lou Rawls. Roebuck esordisce nel circuito gospel, in grandissimo spolvero negli anni Quaranta, di cui Mahalia Jackson è l’indiscussa regina: il circuito delle Chiese di tutto il Paese è un luogo sicuro e rispettato. Roebuck comincia con un gruppo vocale, i Trumpet Jubilees; ma, deluso dalla loro inaffidabilità, una sera a casa raduna la famiglia in cerchio, assegna a ognuno dei figli una parte vocale e, nel 1948, gli Staple Singers sono nati: la voce alta di Pervis, le armonie di Cleota e Yvonne, la voce profonda di Mavis, chiaramente la più dotata. Roebuck ha una voce all’opposto degli shouters, morbida, quasi sotto le righe, che denota però grande autorità morale e dignità. E suona la chitarra elettrica con un tremolo pronunciato, che diventerà il suo marchio di fabbrica. L’apprendistato non è immediato, ma ben presto esordiscono; i vestiti cuciti a casa, quel senso di famiglia unita che non li abbandonerà mai, e di lì a poco devono allargare il repertorio. È il 1951, Mavis ha solo undici anni, ma la sua esuberanza vocale, in contrasto con la sua timidezza, si fanno notare: sorprendentemente – per di più per una bambina – è lei ad avere il ruolo della voce bassa.

Nel 1953 il primo disco, Sit down servant, mostra il loro stile: antico, solenne, leggermente arcaico, spirituale nel senso profondamente sudista. Vende solo duecento copie, ma dieci anni dopo sarà l’anello di congiunzione con un giovane aspirante cantautore del Minnesota che cambierà la loro direzione musicale. L’anno successivo Pops riarrangia un vecchio traditional, The last time, che – sempre altri dieci anni dopo – ascoltato e riarrangiato da un giovane chitarrista inglese, sarà il primo #1 per la sua band, i Rolling Stones (con significato religioso trasformato, ça va sans dire, in un’ultima volta nel rapporto fra un lui e una lei). In quel periodo gli Staples cambiano più volte etichetta: United, Vee-Jay, Riverside, creando un corpo di decine di brani che sono la loro preziosa eredità nel mondo del gospel. Quando la United li invita a spingersi fuori dai contorni della chiesa e di avvicinarsi al blues e al r’n’r, Pops e la famiglia si rifiutano; la chiesa è ancora la loro radice, ci vorrà ancora molto tempo per quella nuova direzione. Passano alla Vee-Jay, etichetta indipendente di Chicago, e arrivano i loro primi hit: Uncloudy day, il classico Swing low sweet chariot, e creano il loro stile; simile negli arrangiamenti a quello degli altri grandi quartetti vocali dell’epoca (Swan Silvertones, Dixie Hummingbirds), ma sempre con quei tratti distintivi, quel tono sobrio, rurale, vagamente country-style di Pops, la sua chitarra con le inflessioni blues, e con la voce, già potente nonostante l’età, di Mavis, a cui viene spesso lasciato lo spazio per emergere dall’impasto vocale degli altri. «È la cosa più misteriosa che io avessi mai sentito», ricorderà anni dopo Bob Dylan, «pensavo a loro anche sul banco di scuola… Mavis doveva avere più o meno la mia età, la sua maniera di cantare mi ha steso – profonda e misteriosa. E anche a quella giovane età, sentivo che la vita stessa fosse un mistero».

Il passaggio a un’etichetta famosa nel mondo del jazz come la Riverside è una scelta di Pops per allargare la potenziale platea, cosa da fare con molta misura per non perdere il suo zoccolo duro di amanti del gospel. Non è disponibile a un crossover come quello di Sam Cooke, Aretha Franklin o Bobby Womack, vuole conquistare il pubblico secolare, più vasto, ma a modo suo. Per gradi. Ma nel frattempo la scena americana sta mutando: la nuova musica, quella che cattura le masse, è il folk, e nessuno la sta plasmando più di un ragazzo magro e nervoso, i capelli ricci e gli occhi blu che viene dal Nord ma ama il talkin’ blues del Sud. Dylan, negli anni Cinquanta, è un ragazzo che ascolta le stazioni radio sulla AM: r’n’r, r’n’b e, dopo mezzanotte, gospel. È lì che sente e s’innamora di Sit down servant. Bob e gli Staples s’incontrano nel ’62: lui ha appena adattato la melodia di un vecchio spiritual, No more auction block, a un suo testo, che parla di risposte elusive, nel vento. Quando Pops sente Blowin’ in the wind rimane profondamente colpito: come mai questo ragazzo bianco canta qualcosa come «Quante strade deve percorrere un uomo / prima che lo chiamino uomo»? È la sua storia, in fondo, quella di un uomo nero del Sud cresciuto nel Mississippi.

Pops capisce che la musica folk usa parole e tocca temi che lui sente suoi, che in fondo ha quella qualità scarna ed essenziale e vera che hanno alcuni dei testi che già canta, e che può avvicinarlo a un nuovo pubblico. In più, il mondo folk è per natura un ambiente in cui è normale che bianchi e neri si trovino fianco a fianco. Quando abbraccia questo genere, crea un ibrido, il soul folk, che sarà la loro cifra per alcuni anni. Gli Staple Singers incidono, dopo Blowin’ in the wind, altre canzoni di Dylan, A hard rain e Masters of war, oltre al classico di Woody Guthrie This land is your land, e si rincontrano in molte occasioni, la più importante delle quali allo storico Newport Festival del ’64. È lì che il giovane folksinger, dopo la marcia su Washington del ’63 già un mito, e la giovane Mavis, allora ventiquattrenne, che diventerà una delle più grandi cantanti soul della sua generazione, si baciano per la prima volta. Sarà un amore che non porterà mai a quella richiesta di Bob gettata lì un giorno che sono in attesa in una fila, «Pops, vorrei sposare Mavis»… «Chiedilo a lei, non a me». Ma sarà amore, poi amicizia e rispetto per sempre (due anni fa sono anche stati in tour insieme).

Quando la Riverside entra in un periodo travagliato, Pops trasferisce le operazioni alla Epic, sussidiaria della Cbs. Pops, per tutta la sua vita, sarà sempre un attento guardiano della sua famiglia, un vero patriarca, ed essere un buon businessman ne fa sicuramente parte. La loro musica diventa più accessibile al grande pubblico: hanno un piccolo hit con una rivisitazione di una canzone dei Buffalo Springfield, For what it’s worth, ancora una canzone che parla di disagio giovanile e di brutalità della polizia, e riprendono il brano che avevano cantato quella sera del ’51 quando Pops aveva radunato i figli ancora bambini in salotto, Will the circle be unbroken, che parla di continuità nella tradizione. Ma soprattutto scrive uno dei suoi classici, su un giro di blues, con parole che esprimono lo sconcerto e la sofferenza di fronte alla maniera in cui un black man – ma in verità, spesso, un every man – viene trattato: Why am I treated so bad?, ispirata da un gruppo di liceali di colore a cui nel ’57 era stato impedito di entrare in una scuola segregata di Little Rock, Arkansas, nonostante la Corte Suprema avesse già stabilito che la segregazione fosse incostituzionale. Non è una protesta urlata con forza come “l’autostrada della libertà”, è morbida, quasi sottovoce, e questo la rende ancora più sofferta, quasi straziante: «Perché, perché sono trattato così male? / Sai che sono tutto solo, mentre canto questa canzone / Ascolta la mia voce, non ho fatto nulla di male / Ma vengo trattato così male…». È la canzone che il reverendo King ama, gli chiede di cantarla prima delle sue prediche, cosa che gli Staples cominceranno a fare con regolarità, al pari degli Impressions di Curtis Mayfield, e verrà anche ripresa in una versione strumentale sinuosa da Cannonball Adderley, uno dei jazzisti di fama che in quel periodo vedono la famiglia come un riferimento morale. Quando quindici anni dopo la canteranno sul palco del Montreaux Jazz Fest dell’81, Pops racconta di come abbia cominciato a cantare in chiesa da bambino, e di come nelle ultime file ci fossero persone che si lamentavano e torcevano, in Inglese to moan, e avesse chiesto cosa volessero dire: «quando una persona moans, neanche il diavolo sa cosa vogliono dire», la risposta.

Arriva l’era della psichedelìa e gli Staples entrano anche nel circuito rock, al fianco di performer come Janis Joplin, con cui Mavis connette, Jimi Hendrix, Traffic, Steppenwolf. Non sono loro ad adeguarsi, anzi, portano la frenesia e il potere del gospel, capace di eccitare una folla al Fillmore – come lo facevano in chiesa – solo con la forza delle voci e del battito delle mani. Evitano joint e droghe e la bottiglia, ma non si sentono fuori posto, in fondo il gospel è musica inclusiva, infervora chiunque abbia l’anima aperta. Robert Shelton, primo biografo di Dylan e inviato per il New York Times, scrive: «Gli Staple Singers trasformano il teatro in una Chiesa fondamentalista con le loro canzoni piene di giubilo, frenetiche, ricche di significati religiosi e politici. Se qualcuno cerca una definizione veloce di soul, offro una risposta: gli Staple Singers». Lo stesso Pops spiega che, nonostante siano due mondi lontani, negli hippies e nelle nuove generazioni vede dei potenziali alleati per la causa, non dei nemici. Se questo pubblico accetta un gruppo che attraversa le barriere di genere, Staples ne è felice. Le porte di un mercato molto più vasto si stanno aprendo, ed è solo l’inizio. Anche se la loro popolarità non è di massa, ormai lo stile e la vocalità degli Staples sono uno dei suoni più influenti sulla scena, apprezzati e imitati da altri performer neri, Aretha in testa, ma anche da artisti bianchi come John Fogerty dei Creedence Clearwater Revival e The Band, la cui Music from Big Pink – il disco che creerà dal nulla quello che un giorno verrà chiamato “Americana” – riprende le loro armonie vocali.

Il passo decisivo avviene nel 1968, pochi mesi dopo l’assassinio del reverendo King in un motel a Memphis, in aprile, che tramortisce loro e tutta la black nation. Dopo tre album, la direzione cambia ancora, e dopo il gospel e il folk questa volta ad accoglierli è la Stax, la leggendaria etichetta di Memphis, casa del soul e dell’r’n’b di Otis e Aretha, Wilson Pickett, Sam&Dave, Booker T and the MG’s. Avviene quando a capo dell’etichetta arriva Al Bell. Lui li conosce bene, faceva il dj alla radio Wlok, in Arkansas, aveva anche fatto il promoter per uno dei loro show, e sono i primi che mette sotto contratto, affidando al ventiseienne chitarrista dei Booker T, Steve Cropper, la produzione: erano loro il gruppo che, in origine, lui – co-autore e produttore del brano – e Otis volevano chiamare per i cori, ma la morte di Redding nell’incidente aereo aveva bloccato il progetto. Una delle prima canzoni che Cropper gli fa incidere è proprio (Sittin’ on) The dock of the Bay. Al Bell è convinto che sta praticamente mettendo sotto contratto tre unità: oltre al suo gruppo, sa bene che Mavis ha un infinito potenziale inespresso, e poi c’è quella voce dolce e gentile di Pops, nessuno dei due ha mai pubblicato un disco solista. All’inizio, il piano sembra funzionare meno del previsto: sia i primi due album che i due “solo” di Mavis sono bei dischi, ma senza hit e inferiori alle aspettative, altissime, che Bell ha per loro. Mavis, in particolare, ha dubbi sulla scelta delle canzoni, per lei allontanarsi dalla sua comfort zone, la musica spirituale, è un percorso a ostacoli. Come gruppo, invece, incidono When will we get paid for the work we did, nella quale Pops rievoca parti delle sue prediche per alzare la consapevolezza della sua gente: «Siamo stati portati qui a forza, e per trecento anni abbiamo costruito questa nazione, solo per essere considerati cittadini di seconda classe. Ma è inutile pretendere di essere ripagati per il passato. Certamente, però, dobbiamo essere riconosciuti per quello che faremo da ora in poi».

La svolta che cambia la loro carriera avviene un pomeriggio, quando Bell fa visita al reverendo Jesse Jackson. Anni prima, il reverendo King aveva chiesto aiuto a Pops per introdurre a Chicago quel giovane predicatore che aveva preso sotto la sua ala. Gli aveva detto «Grazie per quello che hai fatto, te ne devo una», e in risposta Pops gli aveva detto «Sia ben chiaro, tu non mi devi proprio niente». Quel giorno, da uomo del Sud a uomo del Sud, Jackson dice a Bell: «State sbagliando con gli Staples: devi capire il Mississippi per produrli, devi aver conosciuto il gospel e le sue armonie. Puoi farlo solo tu». Bell, buon cantante e un non-musicista, fa la stessa scelta che Jerry Wexler, patron della Atlantic, aveva fatto anni prima per Aretha, poi per Wilson Pickett e altri artisti neri: li porta giù a Muscle Shoals, Alabama, dall’altro lato del Mississippi rispetto a Memphis, non negli studi della Fame ma in quelli fondati dai quattro session men che hanno lasciato il produttore Rick Hall e si sono messi in proprio: David Hood al basso, Roger Hawkins alla batteria, Jimmy Johnson alla chitarra e Barry Beckett alle tastiere, gli Swampers – com’erano chiamati – avevano fatto strabuzzare gli occhi a tutti gli artisti neri che erano entrati in studio senza averli mai visti. Pensavano di trovarsi di fronte a session men neri, con quel particolare feeling ritmico, invece davanti a loro c’erano quattro ragazzi bianchi, campagnoli e di basso profilo. Ma capaci di entrare nel feeling della musica nera in maniera quasi miracolosa.

Il modo di fare molto collaborativo di Bell e degli Swampers, i suggerimenti e i piccoli dettagli che aggiunge Bell – per lui è il sogno di una vita – si rivelano perfetti per la famiglia Staple. Bell, che i musicisti della Stax non amavano avere intorno, lui che non sapeva suonare, si rivela determinante: «Aveva quella incredibile capacità di intuire l’emozione giusta, e di passarla agli altri», dirà il suo tecnico del suono Terry Manning, «un produttore non deve necessariamente sapere cos’è un accordo diminuito». Nel 1970 arriva un primo hit, Heavy makes you happy (Sha-Na-Boom-Boom), e poi con i due singoli da #1, Respect yourself, un altro inno al rispetto di sé, e I’ll take you there. Quest’ultima in particolare, ripresa da uno strumentale reggae di Harry J. All Stars, “The Liquidator”, che Johnson ha riportato indietro da un viaggio jamaicano (e che ha alla ritmica i due fratelli Barrett dei futuri Wailers di Bob Marley), dà quel tocco in più e rompe definitivamente col passato. In studio viene lentamente costruita, partendo da due accordi e una frase, cercando di non ripetere troppo l’originale, e in certe take diventa una jam lunghissima in cui Mavis improvvisa esattamente come faceva in chiesa durante le funzioni gospel. Gli Swampers la seguono, si rilanciano a vicenda e, una volta editata a tre minuti, è allo stesso tempo orecchiabilissima e intensa, un testo minimalista di evidente ispirazione trascendente: «Conosco un posto dove nessuno piange, né si preoccupa / Non ci sono facce sorridenti di persone che mentono / Venite, vi porterò là».

Un vero gioiello di quella fase degli Staples definita “canzoni con un messaggio”. Ormai sono a pieno titolo un gruppo di soul/rythm’n’blues, senza dimenticare le origini, quello mai, ma capaci di attrarre folle da super-gruppo, come al megaconcerto di Wattstax, o ambasciatori della musica afroamericana in Africa, Europa, persino nell’Iran dell’allora Scià di Persia. Il viaggio non è finito, però. Quando la Stax torna in bancarotta per la seconda volta, gli Staples vengono accolti alla Curtom del vecchio amico Curtis Mayfield, e producono un altro #1, Let’s do it again, un soul sinuoso e patinato, radio friendly, sofisticato e commerciale insieme, falsetti e archi e chitarra wah-wah tipici dei medi anni Settanta (ricordate Superfly?). Passeranno poi alla Warner Bros e infine alla Private, dove ottengono un inaspettato #1 nella classifica dance con una cover di un brano dei Talking Heads, Slippery people. Che viaggio! Negli ultimi quindici anni del secolo, sia Pops sia Mavis si dedicano alla carriera solista. Lui con dischi di old time gospel, che gli varranno un Grammy. I dischi di Mavis, cantante straordinaria, lassù in quel pantheon con Aretha Franklin e poche altre, non le renderanno troppo spesso giustizia. Ce ne sono tanti, fra cui quelli di metà anni Ottanta prodotti da Prince, parole e significati in versione funk. Nel 1978, momento altissimo, parteciperanno al Last waltz della Band con una versione sontuosa di The weight, Mavis un angelo nero sceso dal cielo, e nel 1999 entreranno trionfalmente nella Rock’n’Roll Hall of Fame.

Chi semina bene, raccoglie, come ben sapeva Pops fin da quando, da bambino, raccoglieva il cotone nei campi del Delta. All’inizio del nuovo secolo la famiglia cesserà di esistere, nel giro di pochi anni torneranno tutti a cantare le lodi al Signore in Sua presenza. Tutti tranne Mavis, che, ormai ottantenne, continua a portare la torcia, ormai riconosciuta “Regina del soul” che ha pubblicato una serie di album preziosi, sempre a metà fra gospel e impegno civile, a partire da quello prodotto da Ry Cooder nel 2007, We’ll never turn back che riprende il testo di Freedom Highway: un ritorno alle origini, ai temi della protesta di cinquant’anni prima, e che porta il suono di Mavis in quella categoria, Americana, dove si mischiano le musiche delle radici – gospel, blues, country, rock. The Ultimate Staple Singers: A family affair, compilation doppia della inglese Kent del 2004, è un’eccellente sintesi di oltre vent’anni di musica ispirata e ispirazionale, ma non c’è su Spotify, chissà perché. The Staple Singers: Faith and Grace, fede e grazia descrivono bene la loro essenza, è una raccolta del 2015 con ben ottanta brani, più allargata del loro primo periodo gospel. In entrambi i casi, musica che potrebbe salvarvi, se non la vita, almeno un periodo in cui grazia e fede sembrano smarrite. Non sprecate la chance.