L’“Elvis Presley rosso” che tradì gli Usa per Mosca e finì affogato in un lago

Dean Reed nacque in una fattoria del Colorado ma, dopo qualche film anche in Italia, divenne un mito nel Blocco dell’Est per i suoi attacchi all’America di Reagan. Passato a Berlino Est, la sua morte resta un mistero su cui si indaga ancora

di Maurizio Serra («Sette», suppl. al «Corriere della Sera», 23 settembre 2016)

Esattamente trent’anni fa moriva misteriosamente Dean Reed, la più bizzarra rockstar del nostro tempo. Il quasi omonimo John Reed, il reporter americano testimone dei “dieci giorni che sconvolsero il mondo”, la rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, è ancora ricordato come uno dei grandi cronisti del ventesimo secolo.reedDifficile dire lo stesso per il suo connazionale Dean, oggi dimenticato dalle masse che lo osannavano in tutto il mondo, sia pure solo comunista. La sua vicenda, emblematica ma in definitiva triste, merita di essere brevemente ripercorsa. Dean era nato nel 1938 in una fattoria del Colorado, e, come l’altro Reed, magistralmente interpretato da Warren Beatty nel film Reds, biondo era e bello e di gentile aspetto. A vent’anni partì per Hollywood a tentare la sorte, e siccome oltre al fisico vantava un buon timbro di voce, iniziò una discreta carriera di cantante nelle emittenti locali, nei drive-in e nei circuiti di provincia. Non era la gloria, ma riusciva a sbarcare decentemente il lunario e a far palpitare il cuore delle ragazze, finché non sposò Patty Hobbs, una reginetta di bellezza che aveva messo incinta. Proprio allora Dean riuscì a ottenere il primo agognato contratto per Hollywood. Ma la mecca del cinema era anche un vecchio nido di spie e d’informatori comunisti. Il Komintern vi aveva spadroneggiato sotto le amministrazioni Roosevelt e Truman, fino alla bonifica effettuata con metodi un po’ spicci negli anni Cinquanta dal senatore Joseph McCarthy, il cui braccio destro era Richard Nixon. Ma non va dimenticato che il vero uomo di fiducia di McCarthy era il suo giovane e ambizioso assistente, irlandese e cattolico come lui, di nome Robert Kennedy. Interrogati e spremuti dal Comitato del Senato contro le attività antiamericane, personaggi del calibro di Bertolt Brecht, Joseph Losey, Orson Welles, Charlie Chaplin e altri preferirono fare fagotto e tornare in Europa, prima di finire in galera o quantomeno di trovarsi senza lavoro. Quando Reed arrivò a Hollywood vent’anni dopo, la “caccia alle streghe” era acqua passata e il Kgb si accingeva a ripartire alla grande in epoca kennediana, Dean finì nelle reti del regista Paton Price, la cui carriera era stata stroncata dal rifiuto di arruolarsi durante la Seconda guerra mondiale per obiezione di coscienza. Fosse o meno un agente sovietico, cosa mai provata, Price indottrinò il giovane cowboy dall’ugola di velluto sul luminoso avvenire della rivoluzione proletaria mondiale. Dean decise allora di girare le spalle agli States e di partire per Buenos Aires con la famiglia. Da lì prese contatto con i movimenti di guerriglia in tutto il Sudamerica. Tornava in patria ormai solo per partecipare a marce e dimostrazioni di protesta accanto ai colleghi che la pensavano come lui: Jane Fonda, Angela Davis, Joan Baez, e la più fragile e indimenticabile di tutte, Jean Seberg, la ragazza del bandito Belmondo in A bout de souffle, morta in circostanze mai chiarite accanto all’ultimo amante, un esponente delle Pantere Nere. Vent’anni dopo, l’ex marito, lo scrittore e diplomatico francese Romain Gary, si sarebbe tolto la vita, non riuscendo ad affrancarsi dal suo ricordo. Una delle poche, autentiche vicende di amour fou del nostro tempo. A metà degli anni Sessanta, ritroviamo Dean in Italia, dove interessa all’industria nascente degli spaghetti-western più per il fisico che per le doti espressive. Gira una decina di pellicole. La più memorabile, o meno dimenticabile, è Adiòs, Sabata di Gianfranco Parolini accanto a Yul Brinner, che, più piccolo di statura, esige che Dean venga ripreso di tre quarti nelle scene in cui appaiono insieme. A Roma, vive a piazza Navona e finisce talvolta in questura per le manifestazioni contro il Vietnam di fronte all’ambasciata americana. La svolta avviene nel 1965 alla Conferenza mondiale della pace che si tiene a Helsinki, con la regia dei sovietici. Mosca cerca da anni di agganciare un divo capace di attrarre le folle, specie i giovani, e di ridorare il blasone offuscato del socialismo reale. Ma i coniugi Yves Montand – Simone Signoret hanno preso le distanze dopo l’invasione della Cecoslovacchia; la Baez e Moustaki fanno spallucce, Bob Dylan non ne parliamo. Gira e rigira rimane Dean Reed. Non sarà il massimo, ma meglio di niente. Agli occhi del Cremlino, che diventa il suo vero impresario, Reed serve per quel che sembra, e in fondo è: un ragazzone americano dalla faccia pulita, che infligge al suo pubblico di giovani un rock innocuo, denunciando i crimini dell’imperialismo yankee. Dean passa così armi e bagagli dalla parte di Mosca, mentre Patty e figlia tornano a casa. Ottiene le prime tournée e le prime incisioni nel blocco orientale, pagate profumatamente e con tutti i privilegi che si accompagnano al nuovo status di artista del popolo. Percorre in lungo e in largo l’arcipelago dei Paesi fratelli: dall’Urss al Cile di Allende, dalla Palestina del suo grande amico Arafat alla Cuba di Fidel Castro. Il suo repertorio è solo in parte composto da canzoni impegnate. Ricordo un suo concerto televisivo nel 1984, che per l’acustica e l’atmosfera avrebbe potuto benissimo essere registrato a Memphis, invece che allo stadio Dynamo di Minsk, salvo terminare in un tripudio di pugni chiusi e sulle note di Bella ciao. Sposatosi una seconda poi una terza volta con delle attricette della Rdt, Reed si stabilisce a Berlino Orientale e va avanti con la sua vita di rockstar a metà: popolarissimo e strombazzato a Est, ormai rimosso e dimenticato a Ovest. Come tanti artisti dietro la cortina di ferro, conserva un piede dentro e uno fuori la nomenklatura. Da una parte ci sono i western girati in Romania o Bulgaria, i dischi d’oro della Supraphon a Praga, le partite di caccia con il gran capo comunista Erich Honecker, le lettere aperte al “provocatore” Solgenitsin, seguite dall’immancabile Premio Lenin. Dall’altra, un consistente conto in banca a Berlino Occidentale, se mai le cose si mettessero male. Ha conservato passaporto e cittadinanza statunitensi e comincia ad avvertire la nostalgia di casa. Gli Usa saranno pure finiti in mano alla cricca fascista di Reagan, ma lì e soltanto lì un cantante può imporsi, con gli agenti giusti, gli studi migliori, le case discografiche più influenti. Oltretutto, Dean sta passando di moda anche nel paradiso socialista. Gli intellettuali lo hanno sempre snobbato e ora lo snobbano anche i giovani, che riescono a procurarsi i nastri delle band occidentali al mercato nero. L’avvento della perestrojka di Gorbaciov gli dà il colpo di grazia, mandando in soffitta gli slogan che l’ugola di Reed ha propagandato per anni. Il declino è rapido e la fine all’altezza di un drammone hollywoodiano. Dean ha bruciato le residue possibilità di rientro in America, partecipando a uno di quei micidiali talk show in cui gli ospiti sono azzannati e dati in pasto al pubblico. Il presentatore, quella vecchia volpe di Mike Wallace, gli ha dato del traditore di fronte a venti o trenta milioni di probi mangiatori di hamburger e bevitori di Coke. Nel frattempo, il Cremlino ha deciso di dimezzare il bilancio di Wounded Knee, un film che Reed vuole girare e interpretare sulla rivolta di una riserva indiana soffocata nel sangue dalle truppe federali. A casa è un inferno, con l’ultima moglie che si strugge dalla gelosia per via di una vecchia fiamma riapparsa da Denver. Dean ha poi intrecciato un’altra relazione con una nota diva estone, mentre la penultima moglie lo spia per conto della Stasi, la polizia segreta del regime. Ha compiuto quarantasette anni, l’età incalza, birra e salsicce fanno ingrassare, aggiungiamoci la vodka e qualche spinello di contrabbando. La voce cala inesorabilmente, giorno dopo giorno. Il 13 giugno 1986, alla vigilia di dare finalmente il via alle riprese di Wounded Knee, Dean esce di buon mattino per recarsi alla casa di produzione di Stato. All’appuntamento non arriverà mai. Qualche giorno dopo, lo ripescano cadavere nel laghetto davanti alla sua villa. La diagnosi è di annegamento a seguito di un malore. La giornalista Reggie Nadelson, alla quale si deve l’unica biografia del cantante che venne dal freddo (Comrade Rockstar. The Search for Dean Reed, Chatto and Windus, Londra) ha passato in rassegna tutte le ipotesi, dalle più ovvie alle più stravaganti: Kgb, Cia, persino le voci di un traffico di valuta con l’estero ordito dal Politburo della Rdt, con Reed quale inconsapevole tramite. Alla fine, ha dovuto riconoscere che non stanno in piedi. Dean era un pesce troppo piccolo e, cinicamente parlando, ormai avariato perché qualcuno si desse la briga di eliminarlo. Resta la conclusione più romantica: suicidio di un illuso disilluso? Tutti i testimoni attendibili concordano sulla buona fede e la generosità di un uomo rimasto, nonostante tutto, fedele a sé stesso. Il meglio del suo repertorio.

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