Perdere nello sport, vincere nella vita: gli atleti “ribelli” che hanno detto no prima di Anna Muzychuk

di Francesco Caligaris (huffingtonpost.it, 28 dicembre 2017)

Si può perdere nello sport, qualcosa di piccolo o qualcosa di grande, si può dire “no” a un ricco ingaggio o addirittura al sogno più bello, giocare in nazionale, per vincere nella vita. Per diventare un esempio, per portare avanti le proprie battaglie di dignità e i propri ideali.AliL’ultimo caso è quello di Anna Muzychuk, scacchista ucraina che ha preferito rinunciare ai suoi due titoli mondiali pur di non prendere parte alla prossima rassegna iridata che si svolgerà a Riyadh, in Arabia Saudita, dove le donne non sono considerate alla pari degli uomini. Anna non ci sarà e, dunque, non potrà difendere quello che ha vinto nelle scorse stagioni. E che ha sudato per vincere. Ma ha spiegato: «non volevo giocare secondo le regole di qualcuno, indossare l’abaya, essere accompagnata per uscire, sentirmi una persona inferiore». Lo ha fatto: «per far valere i miei principi». Ha fatto come Muhammad Ali, del resto. L’eterno campione del pugilato nel 1967 si vide revocare il titolo mondiale dei pesi massimi per il suo “no” a combattere in Vietnam. Un “no” che resta una delle più grandi battaglie della Storia per i diritti degli afroamericani. «La mia coscienza non mi permette di andare a sparare a mio fratello o a qualche altra persona con la pelle più scura, o a gente povera e affamata nel fango per la grande e potente America – disse Ali in uno storico discorso –. E sparargli per cosa? Non mi hanno mai chiamato “negro”, non mi hanno mai linciato, non mi hanno mai attaccato con i cani, non mi hanno mai privato della mia nazionalità, stuprato o ucciso mia madre e mio padre. Sparargli per cosa? Come posso sparare a quelle povere persone? Allora portatemi in galera». E alla galera fu condannato, per cinque anni, anche se poi non li scontò. Ma in quel periodo non salì più su un ring. C’è poi chi ha perso la maglia della nazionale per opporsi a una dittatura. Si tratta di Carlos Caszely, attaccante cileno degli anni Settanta di origini ungheresi. Sostenitore del socialista Salvador Allende, prima dei Mondiali del 1974 si rifiutò di salutare con una stretta di mano il dittatore Augusto Pinochet: dopo essere stato espulso nel match d’esordio contro la Germania Ovest (il primo cartellino rosso della Storia), non fu più convocato per cinque anni. Colin Kaepernick, il giocatore di football americano che nell’agosto del 2016 iniziò a inginocchiarsi durante l’inno per opporsi alle discriminazioni razziali negli Stati Uniti, è senza contratto dallo scorso marzo e a ottobre ha fatto causa ai proprietari delle squadre della Nfl. Li accusa di essersi messi d’accordo per non ingaggiarlo. Le World Series di tuffi, nel maggio del 2014, fecero tappa in Russia, a Mosca: l’icona britannica Thomas Daley, sposato con lo sceneggiatore premio Oscar Dustin Lance Black, boicottò la gara contro le leggi omofobe del Paese di Vladimir Putin. Daley, uno dei più forti piattaformisti del mondo, disse “no” a un probabile podio e a decine di migliaia di euro. Anche se l’anno dopo, ai Mondiali di Kazan, Daley partecipò eccome: vinse la medaglia d’oro nel team event e il bronzo nell’individuale da 10 metri. L’ultima storia? Lui, Fernando Alvarez, anonimo nuotatore spagnolo ai Mondiali master di Budapest di quest’estate. Pochi giorni dopo l’attentato di Barcellona, il comitato organizzatore dell’evento rifiutò di eseguire un minuto di silenzio per le vittime. Ma lui lo fece lo stesso, fermo sul blocco di partenza mentre i suoi avversari partivano. «Mi sento molto meglio così – spiegò poi –, anche perché certe cose non valgono tutto l’oro del mondo…». Ecco, appunto: certi gesti valgono di più.