di Claudia Giraud (artribune.com, 5 novembre 2022)
«Nella storia della musica e delle culture giovanili non era mai accaduto che uno stile di vita alternativo venisse vietato dalla legge». Alla luce della recente norma anti rave, potremmo fare nostro questo incipit del giornalista musicale Tobia D’Onofrio alla nuova edizione aggiornata nel 2018 del suo libro Rave new world. L’ultima controcultura.
Dopo l’ennesimo party non autorizzato nei dintorni di Modena, il governo Meloni, nel suo primo consiglio dei Ministri, ha varato nuove norme «in materia di occupazioni abusive e organizzazione di raduni illegali», contenute nel decreto legge 162 del 31 ottobre 2022, con pene dai 3 ai 6 anni di reclusione per gli organizzatori di queste manifestazioni a cui prendono parte più di 50 persone. Il tutto ha scatenato reazioni piuttosto tiepide dal mondo musicale. Per non ridurre tutto a mera cronaca e polarizzarci in inutili schieramenti pro o contro, andiamo a cercare le origini del fenomeno per meglio comprenderlo.
La storia dei rave è molto sotterranea: si tratta di un genere musicale legato all’elettronica, di una cultura e di uno stile di vita esploso in Gran Bretagna negli anni Ottanta – per espandersi subito dopo in Europa e negli Stati Uniti – che ha contribuito alle grandi trasformazioni sociali avvenute nel Paese fino ai primi anni Novanta. La sua origine si fa risalire alla sottocultura acid house che tra il 1988 e il 1992 si è cristallizzata e trasformata nel “movimento” rave, ovvero in un’aggregazione pacifica di migliaia di ragazzi di differenti nazionalità, età e classi sociali che si ritrovano insieme per condividere musica e danza e al tempo stesso denunciare problemi politici, difficoltà economiche, disagi sociali.
È esemplare in questo senso il film Everybody in the Place: An Incomplete History of Britain 1984-1992 dell’artista inglese Jeremy Deller che si è potuto vedere qualche anno fa al Pecci di Prato, durante la mostra Second Summer of Love, la trilogia di film d’artista dedicata al fenomeno della musica elettronica e della rave culture anni Ottanta, commissionata e prodotta da Gucci e Frieze. Qui Deller mostra come la cultura rave sia nata soprattutto dalle periferie depresse delle città industrializzate del Regno Unito, e come essa sia debitrice tanto ai movimenti di protesta della working class, quanto alla musica elettronica suonata nei club gay di Chicago e alla scoperta dell’ecstasy. Attraverso rari e inediti materiali di archivio, Deller racconta l’evoluzione della vita notturna inglese di quegli anni che, nel giro di breve tempo, passa dalle discoteche ai rave illegali, quando i ragazzi cominciano a occupare fabbriche e capannoni abbandonati trasformandoli in enormi piste da ballo.
Proprio per la sua natura underground, non è possibile stilare un elenco dei rave party più significativi ma spiegarne la natura. A differenza delle discoteche, non ci sono buttafuori a stabilire chi è il benvenuto oppure no, ma un sotterraneo tam-tam che certifica lo status di “adepto” di questo rito collettivo. Ma proprio in virtù di questa condizione sotterranea che concede tanta libertà espressiva, molti gruppi possono emergere senza sottostare alla pressione delle etichette discografiche che impongono un’estetica dello spettacolo dal vivo (la costruzione di un’immagine, di un’identità visiva aiuta il mercato).
Negli anni Novanta, con l’aumentare della popolarità dei rave, formazioni come Adamski, The Orb, 808 State e Prodigy diventano delle star suonando dal vivo in modalità prima inconcepibili, ovvero facendo ascoltare musica registrata diversa da quella già disponibile sui dischi: proprio come nello spettacolo rock dal vivo si compiono deviazioni dall’album per mettere in evidenza la natura di happening dell’evento. E così, via libera ai campionamenti e alle improvvisazioni alle tastiere. Come spiegano gli Orb nel saggio del 1998 della sociologa inglese Sarah Thornton, intitolato Dai Club ai Rave: «Ciò che stiamo cercando di fare è portare il nostro studio di registrazione di fronte a duemila persone, mixando i suoni dal vivo… nelle uscite in tour precedenti… prima mixavamo tutti i pezzi in studio, poi li registravamo e usavamo i campionatori accentuando gli effetti speciali dal vivo».
Per tirare qualche conclusione si può per azzardo equiparare la cultura rave a quella del mondo dell’arte, in quanto entrambe criticano il mainstream e la cultura di massa perché considerati superficiali, apprezzando invece gli artisti innovativi. E come l’arte, il fenomeno del rave cerca nuovi modi per farsi sentire, strumenti non convenzionali che tendono ad abbattere i tradizionali linguaggi, in nome di un sogno utopico di condivisione ed espressione libera da condizionamenti.