Cosa ci insegna una vecchia hit degli Hollies

di Claudio Giua (huffingtonpost.it, 31 luglio 2018)

He ain’t heavy… he’s my brother fu un successo globale del 1969. Se avete più di cinquant’anni e tuttavia il titolo della canzone non vi dice niente, cercatela su YouTube o Spotify: di sicuro v’è capitato di ascoltarla. Raggiunse il settimo posto nella classifica dei 45 giri più venduti negli Stati Uniti, il terzo nel Regno Unito, l’ottavo in Australia.TheHolliesPassò quasi inosservata in Italia, nonostante gli Hollies, che l’avevano anche inserita nell’omonimo album uscito solo negli Usa, non fossero sconosciuti al pubblico televisivo nostrano dopo la discussa comparsata del 1967 a Sanremo, dove avevano eseguito, in coppia con Mino Reitano, un pezzo minore di Mogol-Battisti, Non prego per me. Gli Hollies sono da annoverare tra i gruppi più significativi della British Invasion: fondati nel 1962 da Allan Clarke e Graham Nash, poi autorevole membro dei Crosby, Stills, Nash and Young, furono meno innovativi dei coetanei Beatles, Rolling Stones, Yardbirds o Who, eppure si conquistarono un vasto seguito nei Paesi anglosassoni grazie all’equilibrato mix tra il sound di facile ascolto e i testi tutt’altro che banali. He ain’t heavy… he’s my brother non fu una hit di dimensioni analoghe alle loro Stop stop stop e Bus stop, ma poi trovò stabile collocazione nei repertori di interpreti celebratissimi, da Neil Diamond, cantante e sex symbol degli anni Settanta, a Olivia Newton-John, l’eroina di Grease con John Travolta. Una vita lunga e gloriosa, dunque, per la classica ballad – ossia un brano melodico e d’atmosfera che punta a evocare momenti speciali o sentimenti forti – scritta da Bobby Scott e Bob Russell. Raccontato tutto questo, perché mi occupo oggi di He ain’t heavy… he’s my brother? Per due motivi: la curiosa sequenza di anniversari collegata alla storia della frase diventata il titolo della canzone e, soprattutto, il messaggio contenuto nel testo. Cent’anni fa, nel 1918, il filosofo e scrittore americano Ralph Waldo Trine raccontò nel libro The higher powers of mind and spirit una vicenda di almeno quarant’anni prima: «La sapete la storia della bambina scozzese? Stava arrancando lungo una strada e teneva in braccio un maschietto più piccolo d’età ma, a ben vedere, grande quanto lei. Un passante la vide e le chiese: non è troppo pesante per te? Lei rispose: non è pesante… è mio fratello». Letteralmente: «He ain’t heavy… he’s my brother». Cinquant’anni dopo, nel 1968, altro passaggio chiave del XX secolo, il musicista Bobby Scott e l’autore Bob Russell s’incontrarono per caso in un locale californiano. Non si conoscevano ma avevano un amico comune, Johnny Mercer, che aveva scritto il testo di Moon river. Russell era gravemente malato ma, su insistenza di Mercer, accettò di collaborare con Scott. Le battaglie antirazziste, antisegregazioniste, pacifiste e libertarie erano allora al culmine negli Stati Uniti, milioni di ragazzi stavano scoprendo i valori della solidarietà lì e in tutto il mondo: Russell ne era condizionato e l’aneddoto della bambina scozzese riaffiorò, prepotente, dai sui ricordi. Dopo qualche settimana la canzone era bell’e pronta. L’anno successivo la incisero gli Hollies. Le sue parole rimandano a quando gli obiettivi sociali e politici da raggiungere erano inclusivi, non di separazione tra fratelli. Traduco solo due capoversi, gli ultimi:

Se c’è qualcosa che mi pesa è la tristezza / perché so che i cuori non sono pieni di gioia / e d’amore l’uno per l’altro. / È una lunga strada / da cui non c’è ritorno. / Mentre siamo sulla strada / perché non condividere il carico? / (Anche se) non mi appesantisce affatto: / non è un peso… è mio fratello.

La condivisione del peso della vita e l’amore reciproco senza distinzioni né condizioni non sono più valori preminenti. Gli interessi particolari, familiari, personali, di casta o di (presunta) nazione sono tornati a prevalere. Si colpisce l’altro nel nome dell’odio, esplicito e rivendicato. Dice bene Daisy Osakue, l’atleta di colore aggredita l’altra notte a Moncalieri, intervistata da Repubblica: «Dopo dieci mesi all’estero ho trovato un Paese diverso. Se dai odio, l’unica cosa che ottieni è odio. Se in tv vengono lanciati messaggi contro gli immigrati, presentandoli come un pericolo, chi sente quelle parole reagisce come un giustiziere». Sarebbe utile, se non addirittura indispensabile, che un po’ del vento del Sessantotto tornasse a spirare sulle città, sui paesi, nelle università, nei parlamenti dell’Occidente, magari nella forma di canzone, come fecero gli Hollies.