L’anno d’oro in cui l’Occidente scoprì il beat dell’Afro Pop

di Carlo Massarini (linkiesta.it, 22 gennaio 2022)

Se c’è un primo momento in cui l’Afro Pop si affaccia all’Occidente – e viceversa – è probabilmente nel 1982 e, per quanto possa sembrare paradossale, grazie a quello che è sostanzialmente un equivoco. Un anno prima, con la scomparsa di Bob Marley, l’umanità si ritrova orfana non solo di un gigantesco artista, ma anche di una figura che rappresenti il Terzo Mondo sulla scena internazionale. La Island di Chris Blackwell, che ha fatto crescere Marley fino a farlo diventare in quel momento la principale rock star mondiale, pensa a chi ne possa raccogliere l’eredità, ma mica è facile. Primo, perché la figura di Marley – che è insieme un carismatico capopopolo, uno straordinario autore, un incendiario interprete e, cosa fondamentale, canta in Inglese – è e rimarrà unica, irripetibile.

Poi perché, in realtà, e i decenni successivi lo confermeranno, non esiste in tutto il Terzo Mondo musicale – che è sostanzialmente Africa, Caraibi e Sudamerica – nessuno che possa raccogliere un’eredità del genere. La ricerca di un erede al trono si orienta verso la West Africa, che di tutto il continente era – ed è ancora – l’epicentro della creatività africana. La Island ha già saggiato il terreno nel 1981 con due compilation, Sound D’Afrique 1&2, che sono state anche il mio biglietto d’ingresso nella musica africana, che, come uno può sospettare data la vastità e la eterogeneità dell’Africa tutta, ha tradizioni e suoni davvero infiniti. Sono entrambe focalizzate sulla musica centro-africana, Congo e Zaire in particolare, salvo una veloce puntata in Costa d’Avorio e in Senegal, dove appare la prima band di Youssou N’Dour, Les Etoiles de Dakar. Brani caratterizzati dalle classiche chitarre africane, sinuose e spiraleggianti come serpenti nel cesto del prestigiatore. È segno dell’interesse che al virare della decade sta montando verso l’Africa nera, intesa come una landa sconosciuta ai più che può celare tesori e dare nuova linfa all’asse anglo-americano del rock, cosa che ha già fatto con il jazz. È un’onda surfata dagli esploratori più intraprendenti, vedi i lavori solisti di Peter Gabriel o di Brian Eno insieme ai Talking Heads, i cui Fear of Music e Remain in Light hanno attinto a piene mani dai poliritmi africani.

La prima scelta ricade su colui che, come Bob, ha le caratteristiche dell’eroe popolare, del condottiero contro il potere costituito: il nigeriano Fela Kuti rappresenta, con i suoi dischi politici e le continue accuse al sistema, una figura sciamanica come il natty dread jamaicano. È un primo errore di valutazione, perché, se lo status politico è quello, completamente diverso è lo status musicale. Marley è comunque un caraibico anglofono cresciuto in mezzo a una tradizione isolana di ska e rocksteady con evidenti influenze americane che si traducono, alla fine, in canzoni apprezzate da un popolo pop e rock. Fela e la sua numerosa posse sono musicisti il cui format consiste in lunghe jam strumentali, brani che possono durare anche intere facciate di lp. La sua musica, chiamata afrobeat, ha legami più stretti con il jazz che con il pop. Ma Fela, la cui produzione negli anni Settanta è stata grandiosa, ed è – al di là di Miriam Makeba e Manu Dibango, che ha avuto un successo mondiale con la sua dance Soul Makossa – forse l’unica personalità africana conosciuta nei circoli internazionali, è stato appena messo sotto contratto dall’etichetta Arista.

L’attenzione cade allora su un altro musicista nigeriano, ben poco conosciuto fuori dal suo Paese, dove è una celebrata e rinomata superstar, tanto che è soprannominato “the Chairman”, il Presidente. La Nigeria è una delle roccaforti della musica africana, è uno Stato molto grande con circa 100 milioni di abitanti, e un mercato molto sviluppato che rende alcuni musicisti locali ricchi e importanti come dei veri re: ma proprio per questo successo, e anche per il genere di musica che suonano, molto legata alla tradizione regionale, tendono a uscire poco dai confini. Lo porta alla Island il produttore Martin Meissonier, che, bloccato nel caotico traffico della Capitale, Lagos, diretto proprio a un appuntamento con Fela, di cui sta producendo i due album che usciranno nel 1981, sente «un pezzo straordinario con una pedal steel guitar selvaggia che mi ha ricordato Hendrix» sparato fuori da un negozio di cassette pirata. In una lunga recensione su Pitchfork si narra anche che Marley, in tutti i casi, una parte nel lancio di King Sunny Adé l’ha avuta: quando Meissonier riceve l’incarico di produrlo, la Island, per finanziare il progetto, lo manda alla Cbs nigeriana a raccogliere le royalties dei dischi di Bob. Leggenda vuole che li riceva in sacchi pieni di banconote.

Sunday Adeniyi ha 36 anni, è nato a Osogbo, nella parte sud-occidentale del Paese, da una famiglia reale Yoruba. Nella tradizione della sua etnia è un Oba, un ruler, un Capo. Il nome d’arte con cui è conosciuto, King Sunny Adé, non è un’esagerazione onorifica, è in linea con il suo ruolo sociale ma anche musicale: la sua nomina a re della musica jùjú risale al ’77, da parte di un gruppo di giornalisti nigeriani, ed è un riconoscimento per la sua dominanza nei gusti popolari. Ma nonostante – o forse proprio per – le sue origini, il percorso non è stato facile. In un’intervista a Jason Gross per Perfect Sound Player racconta: «nessuno della mia famiglia voleva che intraprendessi un percorso musicale. Ma venendo dal sangue di un uomo che suonava l’organo e da una famiglia che conosce bene la musica, era una cosa ereditaria. Per certi versi quindi sono un ribelle, non avrei dovuto farlo. Quando hai una famiglia che non ti supporta è difficile, è una cattiva esperienza, ma non me ne pento». Sunday comincia da bambino, seguendo a 7 anni la mamma in chiesa, dove il papà suona l’organo e lei, di discendenza regale Adesida, canta nel coro (sembra una storia da gospel del Deep South americano).

Il bimbo s’infila in mezzo ai percussionisti che suonano musica tradizionale: «Nonostante il parere contrario dei genitori, occasionalmente andavo in mezzo a loro, stando attento che qualcuno più alto mi coprisse allo sguardo di mia madre. Cercavo di nascondermi dietro degli scudi umani. Mio padre era un uomo che si muoveva lentamente, con attenzione, facendo ogni cosa in modo preciso, anche quando doveva spostare una sedia. Ma questo non era molto in accordo con la musica che volevo suonare, io volevo che la gente sudasse! Quando è morto ho detto a mia madre “questo è il mondo che ho scelto, lasciami andare”. Con mio fratello andavamo in posti dove non mi conoscevano, ed ero solo uno dei tanti che suonava le percussioni. A 16 anni ho lasciato la scuola e sono andato a Lagos, dicendo che andavo all’Università. Mi sono aggregato a un gruppo, non mi sono presentato come un Reale ma come uno studente. Mi han detto “sei troppo piccolo per unirti a noi”, quindi ho detto loro che avevo quasi vent’anni. A poco a poco ho imparato a suonare anche la chitarra, e mi sono per così dire diplomato: da ragazzino nella band a leader di un gruppo».

Inizia con i Federal Rythm Dandies di Moses Olaiya suonando hi-life, e poi forma il suo primo gruppo nel 1967, The Green Spots, che ribattezzerà African Beats. Cita come prima influenza il pioniere dello jùjú Tunde Nightingale, musicista riconosciuto di quella che è chiamata la palm-wine music. Nella (solita) fondamentale World Music Rough Guide si legge come il termine origini negli anni Venti e Trenta, quando, nei quartieri Yoruba, dopo il lavoro, la gente si vedeva in bar dove, appunto, si beveva il vino di palma, e dove i musicisti si riunivano informalmente a suonare chitarre, banjo e percussioni a portata di mano come shakers e calabash. Musica nei cui testi si ritrovavano proverbi della liturgia Yoruba e metafore che nascevano dalla nuova cultura urbana. Nasce il termine jùjú, forse derivato dal suono di un tamburino esagonale di origine brasiliana, forse dal termine jo-jo che significa “danza”. L’arrivo di discografici di etichette inglesi come Hmv crea un mercato locale a 78 giri di cui Nightingale è la prima star. La sua personale variante stilistica, che domina la scena della Nigeria dopo la guerra, è chiamata s’o wa mbe, letteralmente “è lì?”, riferito alle collane indossate dalle donne sotto i vestiti per accentuare i movimenti di danza. Un’altra influenza sulla musica che sta per nascere è quella dell’hi-life, genere che origina sulla Costa d’Oro, poi Ghana, e diventa molto popolare anche all’interno, un mix di musica calypso, da ballo da grande orchestra, di derivazione latina e dell’Africa centrale. Una versione più gentile dello jùjú.

I.K. Dairo è colui che raccoglie il testimone e sviluppa la jùjú introducendo le nuove chitarre elettriche e la fisarmonica, e parallelamente viene introdotto anche il gangan (il talking drum cerimoniale Yoruba) che ne diventa l’elemento fondamentale. Il successo di Dairo è tale da varcare i confini africani, in Inghilterra gli viene addirittura conferito il Member of British Empire (l’unico africano che l’abbia mai ricevuto) e negli anni Sessanta i suoi Blue Notes sono la più popolare band africana. Se Dairo ha aperto la strada, a metà degli anni Settanta arriva però la nuova generazione di musicisti jùjú: prima “Chief Commander” Ebenezer Obey, poi “King” Sunny Adé. Comandanti in Capo e Re, bisogna darsi un tono. Entrambi popolarissimi, competono e per farlo introducono ognuno le proprie innovazioni, la più evidente delle quali è che il gruppo, che da Dairo era stato già ampliato a una decina di musicisti, ora diventa di 20, a volte di 30 elementi: 4 chitarre, tastiere, chitarre hawaiane, una vasta batteria di percussioni e altrettanti coristi. Le canzoni diventano sempre più lunghe, delle vere jam che la critica americana, in un paragone suggestivo, assimilerà alle lunghe, strecciate improvvisazioni dei Grateful Dead (sempre citati quando si parla di jam). Ebenezer Obey è il primo a esser distribuito all’estero, ma l’impatto di Sunny Adé – su disco e nelle sue prime tournée, grazie anche al battage della Island – è decisamente superiore. Del resto, non è più un ragazzo e il suo stile ha avuto tutto il tempo per maturare.

Quando Meissonier produce per la Island Jùjú Music e, nel 1983 e ’84, i successivi Synchro System e Aura, Adé ha già alle spalle una sessantina di album nigeriani con i suoi African Beats: se ne fanno parecchi ogni anno, tutti di grande successo. Buona parte sono incisi per la sua etichetta Sunny Alade, che il suo buon senso degli affari e la poca fiducia nell’industria discografica lo hanno spinto a creare già nel 1974. Quando firma per la Island, che lo pubblicherà sull’etichetta di world music Mango, è già un bandleader ricco e affermato, e non solo grazie alle vendite. Nei concerti, secondo l’usanza africana, oltre al compenso di base si raccolgono molti soldi dallo spraying, ovvero dall’usanza di elogiare e complimentare alcuni degli ascoltatori che in cambio salgono sul palco e incollano una banconota sulla fronte sudata dell’artista in segno di ringraziamento. Più elogi, più banconote. Una sorta di versione ben retribuita delle dediche. Alla fine, signora mia, sò soldi, e tanti. I tecnici passano con la scopa a raccogliere sacchetti di banconote. Si narra che, da un compenso fisso di mille dollari, una star può portarsene via anche diecimila. Oltre alle musiche della sua regione, in cui si parlano centinaia di dialetti diversi che fanno pari con altrettanti stili musicali, ha ascoltato, com’è ormai abitudine consolidata, anche molta musica americana. Sorprendentemente, non solo il sempre citato James Brown (il musicista in assoluto più influente sulla scena africana in toto), Stevie Wonder o B.B. King: ci sono Duke Ellington, Frank Sinatra e Nat King Cole (le passioni del padre), ma anche Jim Reeves, “gentleman Jim”, cantante country&western dell’area di Nashville. Sorprende ma non troppo, considerando la presenza nel sound del suo jùjú di uno degli strumenti più caratteristici del country, la pedal steel guitar, il corrispettivo, il parente alla lontana della slide guitar tanto usata nel blues. Il suo jùjú è infatti una musica di fusione, una base di musica tradizionale africana contaminata da tanti piccoli tocchi esotici (per un nigeriano) che provengono dal country americano e dal dub jamaicano, dai cori di chiesa e dal rock delle chitarre elettriche.

È il prodotto finale dell’idea musicale che ha Adé: «Nel mio genere di musica, voglio che ci siano dentro tutti i tipi di musiche di tutto il mondo. Per cui, sei un fanatico del jazz? È all’interno di questa musica. Se lo sei del r’n’r o r’n’b, lo troverai nella mia musica. Fa felice la gente, ballano ballano ballano. Per quanto riguarda gli strumenti, prima di inserirli ho fatto ricerche in merito. Mi sono chiesto, quale tipo di strumento antico suona come questi? Quando ho introdotto il vibrafono o lo xilofono, il suono era quello degli strumenti di tanti anni fa: ma se li vuoi devi cercare chi li fa ancora, e sono troppo delicati da portare in tour. Quello che faccio è cercare uno strumento che suoni come quello originario, e poi lo introduco nella musica. Se parli della pedal steel, è molto simile al violino africano. Quando ho sentito i dischi di country ho pensato che suonassero simili, allora perché non avere questo suono ma elettrificato? Quando abbiamo introdotto il basso, mi ricordava del thumb piano dei vecchi tempi, in una scatola con le linguette di metallo sopra. Ma non è meglio portarsi dietro un basso che tutte quelle scatole? Per quanto riguarda le tastiere, le mie sorelle vi hanno introdotto la fisarmonica, in modo che il suono fosse praticamente lo stesso. Quindi non aggiungo nulla senza fare ricerche, e nessuno mi ha mai dato uno schiaffo per aver danneggiato l’immagine dello jùjú. Anche quando sono andato all’estero sono stato attento a non deviare dalla musica originale, ma a offrire una musica che avrebbero accettato anche a casa». Un musicista tradizionale ed evolutivo allo stesso tempo.

In un’intervista a Rolling Stone, Meissonier disse: «Adé è rimasto leale alle tradizioni della gente Yoruba. È un uomo tradizionale e, allo stesso tempo, molto moderno. È molto vicino alle tradizioni, omaggiando gli anziani, cantando e parlando attraverso i proverbi. È come un vecchio Yoruba, ma si può permettere di essere anche un uomo moderno. È una pop star nel 1983». Come influenze vocali, Adé cita anche Curtis Mayfield e il suo tono vellutato; e Brook Benton, altro soul singer. Le parti vocali hanno un ruolo centrale nell’insieme del suono di Adé e dei suoi African Beats, anche se nulla si capisce della sua lingua Yoruba (i testi parlano spesso di situazioni legate alla vita nigeriana, dalla povertà alla guerra, a volte sono anche d’ispirazione morale o religiosa). Il suo timbro è soave, nulla a che spartire con l’aggressività e la forza di Fela o di James Brown per capirci. Ha una voce che ondeggia delicatamente, come a suggerire, invitare, non declamare o imporre. In uno dei pochi brani cantati in Inglese, quando dice «356 call me, that’s my number / tell me anything you want from me», «chiamami al 356, è il mio numero / chiedimi qualsiasi cosa vuoi», lo fa con una tenerezza che ti verrebbe da prendere in mano il cellulare. È capace di scatenare l’inferno sulla pista da ballo, e nel prosieguo del brano The Message lo fa, ma quando parla d’amore trova parole di miele.

C’è naturalmente il gioco di chiamata-e-risposta fra il solista e i coristi (o il pubblico), da sempre al centro della tradizione vocale africana sub-sahariana, che nasce in tempi ancestrali nelle cerimonie tribali nei villaggi (Marley le usava tantissimo nel botta e risposta con le I-Threes e col pubblico, era il suo legame sciamanico con la terra delle radici). Le parti vocali qui sono l’esatto contraltare delle (molte) chitarre: entrambe creano delle sottili linee che si intrecciano e si sovrappongono, come fili di una trama che alla fine produce un tessuto melodico, ritmico, espressivo. Un fluire gentile, ipnotico ma in maniera morbida, più onirica che martellante. Prendete l’inizio di Jùjú Music, Ja Fun Mi, riff immediatamente riconoscibile, decollo morbidissimo, come essere presi per mano da qualcuno che ti sorride mentre ti accoglie. Non sono le uniche tessiture che attraversano e sostengono il jùjú del Re, la poliritmia è la cifra dello stile percussivo africano. Fondamentale è la presenza del tamburo parlante, tenuto fra braccio e fianco, compresso e rilasciato come una fisarmonica e percosso dal bastone ricurvo: insieme alla batteria e alle altre percussioni, nei momenti più intensi i gangan esplodono come petardi o schioppettate. Il senso è replicare, in metafora, i toni del linguaggio e della cerimonia Yoruba. Onnipresenti sono le chitarre, ma non fatevi ingannare quando lui le definisce rock: sia le ritmiche, in genere tre che hanno timbri e pennate diverse, sia le soliste non hanno mai la prepotenza, la definizione marcata di quelle che associamo al rock. Sono – ma questa è una caratteristica africana – sempre leggere, come bollicine che frizzano qui e là, gli assoli non sono mai lunghi, non prendono il centro della scena, rimangono sempre incastonati nel fluire del suono nella sua interezza.

Poi c’è la pedal steel, con quelle note dilatate, simili alle chitarre hawaiane che ondeggiano come le palme a Maui, con quel tono vibrato che può essere sognante ma, nelle mani sapienti di Demola Adepoju, avere, come aveva colto Meissonier quel giorno in macchina, vibrazioni potenti, hendrixiane. Le chitarre hawaiane hanno del resto influenzato sia il country americano, sia dagli anni Venti-Trenta i primi passi dello hi-life e dello jùjú, arrivando in Africa sui 78 giri di importazione. Ma Jaiye Oni è uno dei momenti in cui la steel si prende il centro della scena. A tutto questo – siamo nei primi anni Ottanta – Adè aggiunge anche dei tocchi di elettronica, dei synth che non sono mai in primo piano, intrusivi ma che servono o a rinforzare il ritmo, oppure, in maniera più giocosa, un po’ da parco dei divertimenti, per creare effetti dub. Il dub qui non ha la potenza di quello jamaicano, ha la stessa leggerezza delle chitarre, entra ed esce e quasi non lo senti, aggiunge senza calamitare l’attenzione. Una presenza discreta gestita con gusto e parsimonia dal veterano del reggae Godwin Logie. In The Message, ritmica feroce e una seicorde schiaffeggiata mentre le altre si intrecciano, la steel s’impenna con effetti eco-dub.

Le produzioni del King Sunny formato esportazione sono parecchio diverse dalle incisioni per la madrepatria: in queste la lunghezza dei brani è molto più strecciata, spesso raggiungono la facciata, a volte – stesso format di Fela, peraltro – una facciata strumentale e l’altra vocale. È musica da ballo, e le proporzioni sono diverse: non a caso, se i brani sono di 20 minuti, i concerti durano spesso 4-5 ore; non sono rari gli all-nighters, fino all’alba. Se divertimento, e trance dev’essere, giustamente si va all-in, fino in fondo. La lunghezza è la principale preoccupazione dei discografici inglesi nei confronti di Adé. In un contesto in cui la gente è abituata alle canzoni, e i brani lunghi sono occasionali, come fare? La richiesta è di comprimerli, e il trattamento non è tanto diverso da quello che Blackwell ha già applicato quasi un decennio prima con Marley: occidentalizzare un po’ il suono, renderlo più compatto rispetto agli stessi pezzi prodotti a Kingston da Lee Scratch Perry. Più compatto, più ricco, rafforzati i beat, concentrate le melodie rispetto a quelle registrate a Lagos. Non a caso è stato inciso in Africa, e poi missato in Inghilterra.

C’è una notevole differenza fra il primo, Jùjú Music, e il successivo Synchro System, e raccontano bene i due lati: quello africano e quello fatto per un pubblico straniero. Il primo è più arioso, dilatato, sicuramente più vicino al suono originale, i pezzi sono un poco ristretti nel minutaggio rispetto alle lunghe jam nei 33 nigeriani, ma sono una rappresentazione più fedele di quelli che sono anche i concerti. Ci sono persino due brani, Mo Beru Agba e Sunny Ti De Ariya, che sono quasi solo di percussioni. Nel secondo è evidente, da parte di Meissonier, l’intento di offrire all’ascoltatore occidentale qualcosa che suoni un po’ più familiare: i brani sono tutti orecchiabili, i riff intorno ai quali sono costruiti e che rimangono sotto sono il corrispettivo di quello che è un riff di r’n’r degli Stones, parti da lì e poi viene la canzone. Sono quindi più definiti e memorabili nelle loro linee melodiche, diciamo che suonano più come 45 giri rispetto all’altro album; non a caso il minutaggio è inferiore, ma non solo. La produzione sonora è sicuramente più potente. I petardi dei tamburi parlanti, il battito del cuore della musica jùjú, sembrano spesso dei tom o dei timpani, più sordi ma anche più potenti, creano un incedere molto più incalzante, quasi ossessivo. Forse alla fine gli manca un po’ quella spazialità, quel senso di ondeggiare sulle note, il ritmo percussivo ti trascina via, non ti lascia riposare mai. Se i primi rimandano idealmente a una sala da ballo a Lagos, i secondi potrebbero stare in una discoteca urbana americana o inglese e fare la loro figura.

Si tende a indicare il primo dei due album come il principale riferimento, perché è l’apripista ed è più vicino alla versione nigeriana, più sottile, più gentile, più jam. Synchro System ha canzoni più riconoscibili (se ti entra nelle orecchie Penkelè vattela a levare), ognuna con un riff memorabile, una produzione e un suono leggermente più duro, più trascinante, un impatto più dinamico (nel senso occidentale) e alla fine più godibile per un pubblico che non è così aduso all’ascolto tradizionale. Non sempre, però: Mo Ti Mo ha la dolcezza di un calypso tropicale. Sul mercato internazionale i tre album funzionano, soprattutto i primi due, e anche i primi tour registrano sempre il tutto esaurito, col pubblico in piedi fin dalle prime note, e critiche più che entusiaste. Robert Palmer del New York Times (autore di alcuni libri fondamentali sul blues, fra l’altro) si sbilancia fino a dire «uno dei concerti-evento più importanti del decennio». Persino il famigerato critico del Village Voice Robert Christgau, a cui non cade una briciola di complimento dal tavolo neanche se preghi, gli dà tutte A. Poi, qualcosa svanisce. Aura non ha grandi vendite e la Island non rinnova il contratto. E comunque, la scelta di campo è chiara: Adé preferisce rimanere fedele al suo suono e non occidentalizzarsi eccessivamente per cercare qualcosa che non gli appartiene. Rientra nella sua piacevole vita da superstar africana, onorato e rispettato anche dalle nuove generazioni. Continua a pubblicare dischi in patria che solo a volte vengono ripresi da etichette americane. Viene con una certa regolarità in tour europei e americani, anche se bisogna sempre fare i conti con le spese, perché spostare una band di 20 elementi non è proprio una passeggiata (all’estero, infatti, il formato è intorno alla dozzina).

I suoi concerti continuano a essere bagni di folla: chiaro che essere immersi in un concerto a Lagos è in tutti i sensi un’altra cosa, ma conosciamo bene il grado di coinvolgimento che la musica e i ritmi africani sanno creare per tirarti dentro. Non ho mai visto il King dal vivo, ma ne ho un ricordo di emozione toccante: un tramonto sul lago di Sabaudia, insieme a Paolo Giaccio e alcuni amici fra cui Toni Esposito, tutti silenziosi mentre il Sole scendeva e Synchro System spandeva un ritmo nel quale perdersi. In Nigeria King Sunny Adé è ancora oggi, a 76 anni, uomo di prestigio assoluto, e le cose da fare non gli mancano davvero. Musica, e numerose mogli, figli e nipoti a parte, i profitti delle vendite e degli spettacoli sono stati reinvestiti bene: nel petrolio (che abbonda in patria, come l’Eni sa bene), in una compagnia mineraria per scavare nel ricco sottosuolo, in un locale a Lagos, in una società di P.R. e nella sua etichetta che produce altri artisti africani, ed è anche Presidente della Siae nigeriana. A metà degli anni Novanta, su 5 ettari di terreno donatigli dal governo, ha creato la King Sunny Adé Foundation, un’organizzazione che include un centro per le performing arts, uno studio di registrazione, una foresteria per giovani artisti e una serie di iniziative per favorire lo sviluppo della cultura e dell’arte nigeriana, fra cui una scuola di musica e una di teatro: «Penso che con questa fondazione posso aiutare persone sotto-privilegiate, trovargli un lavoro». E anche se non è mai diventato il nuovo Marley, Adé ha un grandissimo merito: aver aperto la porta, e indicato la strada, ad artisti africani come Youssou N’Dour, Salif Keita, Baaba Maal, che, immediatamente dopo di lui, sono diventati ambasciatori della musica africana nel mondo.