Ma quali dèi, oggi i divi sono persone comuni. E vivono online

di Marco Belpoliti (espresso.repubblica.it, 22 dicembre 2017)

Giorgio Selva, il protagonista del film Gli sdraiati, viene riconosciuto per strada; persino in ospedale la gente gli chiede di fare un selfie con lui; c’è poi chi gli sputa davanti in segno di disprezzo, ma anche questo è un segno evidente di popolarità. Selva è un giornalista.Mike-GrilloIn realtà, è un conduttore televisivo, un presentatore, appartiene alla schiera dei Bonolis, dei Conti, dei Fazio, delle De Filippi, i mediatori, il cui nome più noto è quello di Mike Bongiorno. La televisione ha cambiato di fatto la definizione generale del divismo, estendendo il modello nato nella Hollywood degli anni Venti del XX secolo alla realtà quotidiana. Non sono più attori, creature inavvicinabili, come gli dèi dell’Olimpo, bensì donne e uomini, conosciuti e famigliari. La televisione crea i nuovi divi traendoli dal pubblico stesso, seguendo i percorsi, non più della diversità – bellezza, fascino, eccentricità –, ma della somiglianza. Il nuovo divismo, inaugurato nel 1954 con la nascita della televisione in bianco e nero, si è fondato, sia nella Paleotelevisione come nella Neotelevisione, e persino nell’attuale Transtelevisione, sulla confidenza e la fiducia. Con l’avvento della Neotelevisione, termine coniato da Umberto Eco, anche il presentatore, o conduttore, è diventato perciò un divo. Nel 1984 Omar Calabrese descriveva così il tipico presentatore televisivo: «Uno qualunque, non particolarmente bello anche se piace alle donne, non abbigliato stranamente perché veste in completo borghese, non definibile per accento, non irresistibile nelle battute». Uno come tutti. Oggi i divi, scrive il sociologo dei consumi Vanni Codeluppi all’inizio del suo saggio Il divismo (Carocci), sono un po’ più simili al resto del genere umano. Un po’. Perché qualcosa di diverso c’è sempre, e il “qualcosa” è il mistero stesso del divismo, un imponderabile, la cui formula nessuno possiede a priori. Di recente, per la morte di David Bowie, nel gennaio 2016, si è parlato del cantante inglese come uno dei divi per eccellenza della seconda metà del XX secolo. Bowie, oltre a un indubbio talento musicale, possedeva tutte le qualità per essere un divo. Eppure senza il suo talento per l’eccesso e per l’artificio, che l’hanno connotato, sarebbe rimasto un eccentrico personaggio di Brixton, figlio di una cassiera di cinema e di un reduce della Seconda guerra mondiale. L’autore dell’album Hunky Dory è senza dubbio il caso limite del divismo contemporaneo, che si ripete in altri personaggi più giovani: Madonna e Lady Gaga. Oggi esistono le megastar del sistema mediatico globale, come Bowie, e contemporaneamente i divi locali, piccole o medie star, come quella impersonata da Giorgio Selva. Dopo aver esordito nel mondo teatrale americano degli anni Venti dell’Ottocento, quando le compagnie viaggianti si trasformarono in stabili, il divismo è stato di fatto creato a Hollywood; nel quartiere di Los Angeles fu ripensata la lezione di P.T. Barnum, il creatore dei circhi moderni, per produrre l’immaginario durato, tra alti e bassi, per oltre ottanta anni. La televisione ha fatto qualcosa di diverso. Medium più freddo, per dirla con McLuhan, e quindi meno sognante e onirico del cinema, è stata prima di tutto un elettrodomestico casalingo. Per questo i suoi divi dovevano essere simili agli spettatori – casalinghe, impiegati, agenti di commercio, bambini – che li vedevano esibirsi nel salotto o nella cucina di casa. Tutto più vicino, ma ancora distante, prerogativa senza la quale il divismo neppure esisterebbe (divo da “divus”, divino). Il piccolo schermo – oggi non è più tale – conferisce un fascino a chiunque vi appaia, che sia nei panni dell’annunciatore, del presentatore e persino dell’intervistato. Questo fascino si chiama “prestigio”, che la televisione ha ancora il potere di produrre per la sua valenza di sguardo oggettivo sulla realtà. Ciò che appare, o viene detto, in televisione è, o almeno era, vero, perché oggettivo: la televisione mostra la realtà, questa la credenza principale. Nella Transtelevisione attuale, come l’ha definita Codeluppi, fondata sul reality di “tutti-contro-tutti” – spettatori contro concorrenti, concorrenti contro altri concorrenti – l’aspetto principale è dato dal conflitto, dallo scontro più o meno reale. Un esempio perfetto di questo divismo conflittuale è incarnato da Vittorio Sgarbi, il cui prestigio deriva dall’aspetto altamente polemico dei suoi interventi televisivi, oltre che dalla cultura artistica esibita, una miscela davvero unica, che ne fa un personaggio basculante tra cultura, politica e polemica spicciola. Nella Transtelevisione vige tuttavia il principio del controllo dello spettatore rispetto ai personaggi televisivi, un modello entro cui è cresciuto un altro divo della polemica attuale, Beppe Grillo, che lo ha sfruttato per fondare un partito. Codeluppi scrive che la televisione è una sorta di specchio: nel reality il divo è anche lo spettatore. Il tema della partecipazione è diventato importante nella trasformazione del divismo attuale. Il passaggio, avvenuto nel corso del XX secolo, è stato prontamente individuato da Andy Warhol; il mito della fama possibile per un lasso di tempo anche breve o brevissimo, i famosi quindici minuti, decisivo per generare la convinzione che tutti potevano essere dei divi. La popolarità non è il divismo, tuttavia è comunque indispensabile per crearlo. Il web ha poi evidenziato questa natura partecipativa del divismo. Si tratta di una questione già sentita nel passato, poiché neppure il divo cinematografico degli anni Venti del XX secolo poteva essere tale senza la partecipazione dei suoi fan. Allora esisteva ancora la barriera che separava l’attore dai suoi ammiratori, una barriera che creava un senso di sacralità attorno alla figura del divo, come accadeva nel mondo classico e anche medievale per re e principi. Era il tema dell’intangibilità. I rituali del divismo sono antichissimi, e in buona parte sono rimasti simili al passato e fondati su qualità singolari. Ciò che è invece mutato è la quantità, che si esplica nella quantità delle azioni che oggi producono il divismo. Le celebrities per essere tali devono produrre una continua performance. Non basta comparire in un film o in una trasmissione televisiva, o sfilare sul tappeto rosso di qualche festival. Bisogna utilizzare i social network in modo continuo. Tiziano Bonini in uno studio, Appunti per un’anatomia della celebrità su Twitter, pubblicato sul sito doppiozero.com, ha analizzato le attività svolte dai divi negli spazi digitali: ventiquattro ore al giorno, sette giorni su sette. La quantità temporale delle attività fa la differenza; le celebrità devono condurre sul proprio profilo Twitter, e ora su Instagram, un elevato numero di azioni per permettere al proprio pubblico di fan di seguirle. Questo ha spostato l’elemento partecipativo dall’attivismo concesso nei reality alla passività dei fruitori dei social network. Con una differenza capitale: la possibilità offerta dal web agli spettatori di trasformarsi a loro volta in divi attraverso il medesimo strumento; questo senza dover sottostare al meccanismo della cooptazione, imprescindibile nel cinema e nella televisione. Nel web ciascuno è l’imprenditore di sé stesso. Meglio: il produttore, il regista, l’autore, l’attore di sé stesso. Naturalmente si tratta di un divismo molto incerto sul piano della durata, perché, come nelle fluttuazioni finanziare del turbocapitalismo, le fortune dei singoli attori sono altamente stocastiche; sono pochi coloro che riescono a mantenere un rapporto duraturo con i propri followers, versione riveduta e corretta del pubblico televisivo e cinematografico. La cosa più interessante, vera novità, è che i social hanno abbattuto la separazione tra scena e retroscena, la diversità tra i due spazi del comportamento, per dirla con Erving Goffman. Non c’è, almeno in termine d’esposizione di sé, più differenza tra il palcoscenico e il camerino, tra la vita pubblica e quella privata. Tutto deve essere esibito. Si tratta di quella che alcuni sociologi dei new media chiamano “intimità connessa”. Mentre il segreto era uno dei motori del divismo tradizionale – Bowie l’ha applicato in modo straordinario concedendo pochissime interviste –, nel mondo social occorre esibire anche la propria vita privata: postare immagini, selfie, foto, ritratti, frasi che riguardano e documentano la propria vita intima. Questo non vale più solo per i divi, o per i cosiddetti influencer, ma per tutti coloro che utilizzano i social in modo da avere un seguito – senza i follower Twitter non esisterebbe neppure. Il divismo è qualcosa che riguarda l’esistenza delle persone comuni. E non solo i modelli divistici vengono assunti dai singoli, ma anche il divo mutua dai suoi fan modelli da riutilizzare. Un esempio è il rapper e youtuber Fabio Rovazzi, che ricicla stilemi e figure tratte dalla vita quotidiana per intensificare il proprio rapporto con il pubblico, o un divo musicale del passato come Gianni Morandi per includerlo nella propria comunicazione. Ma ci sono giovanissimi youtuber ventenni con milioni di visualizzazioni: Pantella, Matt e Bise, Cicciogamer892 o Favij; quest’ultimo arriva a 3 milioni per un video in cui fa una imitazione del Villaggio versione professore tedesco producendo un fantomatico dentifricio per elefanti. Poi ci sono le giovani youtuber italiane della moda come EliLikeMe o KissAndMakeUp01 con centinaia di migliaia di visualizzazioni per i loro singoli video. Il carattere fondamentale delle star del web, giovanissime, o più mature, è ancora l’uso del corpo. Gli youtuber più noti a livello nazionale e internazionale utilizzano come materia prima il proprio corpo. Tutte le attività tipiche della messa in scena del divo – trucco, vestiti, posture – diventano un argomento centrale nei video nel web. Come sottolinea Codeluppi nel suo saggio Il divismo, si tratta per lo più di modelli culturali profondamente conformisti, là dove invece, almeno negli ultimi sessant’anni, i modelli divistici di maggior effetto erano piuttosto di tipo trasgressivo soprattutto in campo musicale; domina l’ibridazione dei generi e degli stili e l’aspetto parodico è spesso dominante: sono citazioni di citazioni. L’elemento della mercificazione – il divo come prima merce – è diventato vincente a tutti i livelli. Il culmine di questo divismo è impersonato da Silvio Berlusconi, proprietario di giornali, di un network tv, di attività commerciali e bancarie. Uomo dotato di fascino e simpatia, non bello, anzi brutto, Berlusconi ha saputo trasformare persino la politica, ultima frontiera raggiunta dal divismo, in una merce da vendere sul mercato. Il tycoon di Arcore incarna il divo come merce di merci nel supermercato della politica. Un successo innegabile.