Come si veste il BisConte

di Fabiana Giacomotti (ilfoglio.it, 5 settembre 2019)

E poi dice che le donne sono delle spendaccione e pensano solo ai vestiti. Questa mattina, al giuramento del governo Conte bis (o “bisConte” che temiamo diventerà lessico comune fino al termine della legislatura), hanno presenziato almeno otto completi maschili di sartoria, costo minimo duemila euro, e circa cinque completini da donna di Zara o limitrofi, spesa massima cento euro.

Reuters
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Come facilmente percepibile dalle cuciture spesse della camicetta da cocktail con reggiseno bianco affiorante della neo-ministra dell’Innovazione Paola Pisano, che in spregio o forse in totale ignoranza del luogo e dell’ora ha accompagnato quello specimen di crêpe di seta a poco prezzo e costruzione tanto originale a un paio di pantaloni effetto batik genere saluto al tramonto su una spiaggia di Ibiza.

Facevano eccezione l’abito intero in chiffon bluette della ministra del Lavoro Teresa Bellanova, molto azzeccato nel taglio e soprattutto nella costruzione a fasce di quadri mobili applicati ton sur ton, ottimo escamotage per le fisicità imponenti come la sua che di solito si rifugiano nelle palandrane scivolate e punitive (un momento di bluette, il colore più difficile e meno donante, alle cerimonie nazionali non manca mai, ricorderete il tremendissimo completo di Maria Elena Boschi). Buono anche il taglio del tailleur pantalone color panna della ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, purtroppo accompagnato dalla solita “maglietta” scollatina in tinta a contrasto che piace tanto in provincia perché “fa serio ma anche femminile” e dalla consueta orrida pronuncia franco-romanesca dell’inviata di Rai3 che la annunciava; signorina, un consiglio, non si dice “tajer” ma “taˈjœːʁ”, OE come nella pronuncia latina corretta di Regina Coeli: già abbiamo Luigi Di Maio agli Esteri, le brutte figure non ci mancheranno, impari almeno lei.

La ministra della Famiglia Elena Bonetti ha sfoggiato alle dieci del mattino una giacca da smoking con i classici revers sciallati di raso, ci piacerebbe sapere perché e a che cosa alluda. Paola De Micheli ci ha fatto tenerezza perché la voce le tremava come nei dibattiti televisivi non le accade mai; il tailleurino scuro con profili bianchi, abbottonato fino al collo, avrebbe potuto anche andare, se non altro non prevedeva lo sfoggio della famosa maglietta, ma era di una taglia inferiore alla sua di oggi e tirava attorno ai fianchi (immaginiamo non abbia avuto il tempo di dimagrire e/o di comprarsene uno nuovo). Al momento di uscire, nessuno ha detto alla neo-ministra dell’Interno ed ex prefetto di Milano Luciana Lamorgese che la camicia bianca era più lunga della giacca: al momento della firma le penzolava con le punte rivolte all’insù come nella famosa muta supplica del frac di Calogero Sedara. Da milanesi e da grandi estimatrici della signora ci è scappato un sonorissimo “nooo” di disappunto.

I ministri di sesso maschile se la sono cavata tutti, perfino Dario Franceschini con i soliti mocassini sfondati e la giacca oversize da funzionario di vecchia scuola che comunque ci rassicura: la gioia di ritrovarlo alla Cultura a riparare i danni inflitti alla sua riforma dall’incompetenza di Alberto Bonisoli e dal suo cattivo consigliere Tomaso Montanari è tale che ci sarebbe piaciuto anche in maniche di camicia e con le dita nel naso, l’avremmo trovato chic comunque. La verità è che a furia di leggiucchiare le rubriche di stile dei quotidiani senza farsi vedere, e ad eccezione di Matteo Salvini che non si è fatto ancora riprendere in una diretta Facebook sul giuramento di oggi, i politici italiani hanno imparato almeno un po’ a vestirsi. Non tutti possono permettersi le scarpe francesine impeccabili del premier Giuseppe Conte detto Giuseppi e nemmeno il punto di ceruleo “Miranda Priestly” della sua cravatta (avrete notato che quasi nessuno porta più il rosso, colore in voga nel governo Gentiloni); ma per esempio il ministro dell’Ambiente Sergio Costa, pur fra le mille polemiche che hanno accompagnato la sua precedente gestione del dicastero dell’Ambiente, in tema di eleganza e uso di mondo è un signore che sa il fatto suo, a differenza di Luigi Di Maio, sempre troppo lucido e nel volto e nella cravatta e nel tessuto degli abiti; troppo matrimonio beneventano, ecco.

Le donne, invece e in genere, quando e se chiamate a ruoli istituzionali sono rimaste al “Dress for success” di John T. Molloy del 1975, cioè all’abito da uomo in versione femminile, al “tajer” che, essendo italiane mangiatrici di pasta e dunque generalmente provviste di un cleavage, cioè di una scollatura, non affiancano alla camicia col fiocco stile Thatcher che l’autore suggeriva e che è stata riportata di recente sulle passerelle da Gucci, ma alla maglietta scollatina e al vezzo di perle. Il guardaroba di Christine Lagarde, autorevole anche in abito intero, ignara dell’esistenza del body aderente, ha insegnato alcunché a nessuna, o forse poche possono permettersi i suoi tagli Chanel. Probabilmente lo fanno anche per evitare le accuse di compulsione spendereccia che accompagna le donne dai tempi di Catone il Censore. Il problema non è quante donne siano entrate a far parte del nuovo esecutivo. Il punto è che sono ancora costrette a mascherarsi da uomini.

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