Come Whitney Houston si riprese la sua blackness

di Daniele Cassandro (internazionale.it, 22 marzo 2022)

Tra il 1989 e il 1990, Whitney Houston (1963-2012) è una delle più famose pop star del mondo. È nata per quello: sua madre Cissy non è solo un’apprezzata interprete gospel ma ha lavorato come corista e arrangiatrice con chiunque, da Otis Redding ad Aretha Franklin, passando per Dusty Springfield e Jimi Hendrix, e ha anche avuto un certo successo come artista disco. Dionne Warwick, forse la più grande cantante afroamericana ad aver capito come funzionasse il pop bianco, era sua cugina, e Aretha Franklin per lei era una specie di zia acquisita, “auntie Ree”. Ha cominciato giovanissima, sapientemente guidata dalla madre che l’ha non solo istruita a cantare come una consumata interprete gospel (“con il cuore, con la testa e con la pancia”, le diceva), ma l’ha educata a essere impeccabile: i capelli stirati o accuratamente raccolti, il trucco leggero che sottolinea la sua pelle naturalmente chiara e abiti eleganti, un po’ démodé, da reginetta del ballo. E poi c’è ovviamente la religione: la chiesa è il perno intorno a cui ruota la sua vita sociale e artistica.

Ph. David Lefranc / Getty Images

La Whitney Houston adolescente è l’incarnazione delle aspirazioni d’integrazione della borghesia afroamericana degli anni Cinquanta-Sessanta e, come tutti i bambini e le bambine prodigio, viene considerata dalla famiglia una futura fonte di sostentamento. La madre, però, è troppo accorta per buttarla troppo presto nella mischia: preferisce nasconderla, crescerla con pazienza e farla esordire già perfetta. E il piano funziona. Grazie ai suoi insegnamenti e alla guida di Clive Davis, un pezzo grosso della discografia statunitense, l’uomo che scoprì Janis Joplin e fece firmare il primo contratto a Bruce Springsteen, Whitney Houston ad appena vent’anni è pronta a prendersi tutto: ha una bellezza sensuale e verginale allo stesso tempo, un senso dello stile che va oltre le mode e una voce memorabile.

Oggi, inquinati da tre decenni di imitazioni scadenti e di talent show, tendiamo a dare Whitney Houston per scontata, ma a metà degli anni Ottanta non c’è nulla di scontato nella voce che lega la pienezza e l’atletismo del canto gospel a un controllo assoluto e a un fraseggio da grandissima interprete pop. La sua capacità di passare con naturalezza dal registro centrale a un falsetto cristallino lascia ancora stupefatti: la voce della Whitney Houston dei primi due album (Whitney Houston del 1985 e Whitney del 1987) è uno strumento meraviglioso, ma è proprio quell’ossessione per il controllo a far intravedere le prime crepe. Houston è addestrata a controllare la sua voce, a domare i suoi capelli afro, a smussare gli spigoli del suo accento di Newark e del suo carattere. Dietro al sorriso smagliante e a quell’infilata di successi senza precedenti concentrati tra il 1985 e il 1989 sembra non esserci nulla, se non un titanico sforzo di nascondersi anzitutto a sé stessa.

Al pubblico, soprattutto a quello afroamericano, le cose cominciano presto a non quadrare: Whitney Houston viene considerata un Oreo, nera fuori e bianca dentro, come i famosi biscotti. Cominciano a chiamarla “Whitey” Houston e girano voci sempre più insistenti sulla sua sessualità. Whitney ha, in effetti, una sua vita sentimentale segreta: Robyn Crawford, sua amica d’infanzia e confidente, era stata anche il suo primo amore. Di comune accordo le due ragazze avrebbero deciso d’interrompere la loro storia già nel 1980 perché uno scandalo gay avrebbe significato la fine della promettente carriera di Whitney. Robyn però è sempre presente nella sua vita, come direttrice creativa, fino al 2000. Whitney, a 14 anni, aveva cominciato anche a farsi di coca con i fratelli e viveva questi segreti come una profonda vergogna e un peccato mortale che né la sua chiesa e né l’industria in cui lavorava le avrebbero mai perdonato. Dietro alla perfezione e alla percepita “bianchezza” di Whitney Houston c’è tutto un castello di vergogna e di rimozioni che la porteranno a non chiedere mai aiuto e a vedere la sua carriera così accuratamente costruita sgretolarsi lentamente fino al momento della sua tragica morte, nella vasca da bagno di un hotel di Los Angeles, l’11 febbraio 2012.

Questa lotta contro sé stessa e la propria immagine, che ha accompagnato Whitney Houston lungo tutta la carriera, è descritta nel libro Didn’t we almost have it all: In defense of Whitney Houston, del critico afroamericano Gerrick Kennedy, che scrive: «Le donne nella musica pop sono tenute ad avere un certo aspetto. Ma le donne nere hanno un doppio fardello di aspettative da portare: devono avere un determinato aspetto e un determinato suono per poter essere passate nelle radio pop, ovvero bianche. La pelle non deve essere troppo scura, il corpo non deve essere troppo abbondante e i capelli non devono essere troppo ricci. E questo per quanto riguarda l’aspetto: nella musica devono costantemente fare il tiro alla fune tra la loro ambizione e un’idea di autenticità che sono tenute a incarnare». Whitney Houston, conclude Kennedy, nella seconda metà degli anni Ottanta ha volato troppo vicino al Sole: non poteva mai essere bianca (o nera) abbastanza, etero abbastanza, ben educata o magra abbastanza. Le si chiedeva sempre qualcosa di più ed è questo che, alla fine, l’ha schiacciata.

Alla fine degli anni Ottanta Whitney Houston è ancora in cima al mondo ma il 13 aprile 1989, durante i Soul Train Music Awards, un premio dedicato esclusivamente all’industria discografica afroamericana, quando vengono annunciate le candidate per “miglior singolo rnb e urban contemporary” e viene fatto il nome di Whitney Houston, la sala comincia a rumoreggiare e a fischiare. Le altre candidate sono Anita Baker (che vince), Karyn White e Vanessa Williams. Tutte e tre sono cantanti soul che flirtano con il pop (Baker in particolare gode di un ampio successo mainstream, anche in Europa), ma a loro è riconosciuta un’autenticità, un’appartenenza che a Whitney viene negata. Tra gli artisti che si esibiscono nel corso della manifestazione c’è anche Sheena Easton, scozzese, bianchissima e famosa per le collaborazioni con Prince, ma i fischi sono solo per “Whitey” Houston. Per lei è un colpo durissimo e quella serata cambierà il corso della sua vita per due ragioni: in quell’occasione conosce il suo futuro marito, il cantante rnb Bobby Brown (album dell’anno per il suo Don’t be cruel), e capirà che la musica per lei deve – letteralmente – cambiare.

D’accordo con l’onnipresente e onnipotente Clive Davis, Whitney Houston mette mano al materiale per il suo terzo album, I’m your baby tonight, con uno spirito diverso: c’è bisogno di un suono più aggressivo, più funk, più nero. Davis, però, è l’uomo del compromesso: non vuole una rivoluzione e, accanto ad autori e produttori giovani e alla moda, come Babyface e L.A. Reid, pretende che Whitney continui a collaborare con gli artefici del suo successo, Narada Michael Walden e Michael Masser. In più, per ricollegare Whitney alle sue radici soul, mette in piedi collaborazioni molto ben mirate con Stevie Wonder e Luther Vandross. La nuova squadra di Whitney Houston, dunque, è un trionfo del compromesso: ballatone classiche e un po’ melense, ma arrangiate con gusto e precisione, e pezzi new jack swing, il genere black per eccellenza di quegli anni, che mescolava melodia pop a schiaffoni di electro funk e a tocchi di house.

A Whitney Houston va riconosciuto qui un enorme merito d’interprete: con il nuovo materiale cambia anche la sua voce, che diventa più morbida e adulta. In I’m your baby tonight usa molto di più il suo registro centrale, sia nei pezzi dance sia nelle ballate, e quando salta alle note più alte, al suo famoso registro di soprano, fa apparire la cosa ancora più spettacolare. La performance vocale di Whitney Houston in questo album è davvero notevole: se nei dischi precedenti era troppo impostata qui, da vera diva, impara a incrinare le note, a sporcare la voce, a lasciarsi andare al momento. Il gospel le dà la sicurezza, pur rimanendo in un contesto assolutamente pop, di fare una cosa che prima non avrebbe mai osato fare: improvvisare. In I’m your baby tonight trova la sua consapevolezza e finalmente imbocca quel sentiero che aveva aperto anche per lei “auntie Ree”, Aretha Franklin, quando abbandonò la chiesa per darsi alla musica secolare.

I pezzi dance di I’m your baby tonight sono quelli che oggi appaiono più datati: soprattutto i singoli, come quello che dà il titolo all’album, e la pur trascinante My name is not Susan. Anymore sarebbe stata un ottimo singolo e lascia presagire quel croccante rnb vocale che sarebbe diventato la cifra delle Destiny’s Child qualche anno dopo. All the man that I need è una ballad adulta e sensuale che finalmente trasforma Whitney Houston in una creatura sessuata. È una canzone che, fin dal titolo, “Tutto l’uomo di cui ho bisogno”, è una celebrazione dell’eterosessualità e della monogamia. Notevole che a cantarla sia una giovane donna che nasconde al mondo la sua bisessualità; e ancora più notevole che con il testo cambiato (All the woman that I need) la ricanti nel 1994 Luther Vandross, anche lui un gay nascosto. Più che un inno all’eterosessualità e alla monogamia, All the man that I need rischia di passare alla storia come un inno alla rimozione.

Il pezzo più notevole dell’album è We didn’t know, un duetto con Stevie Wonder. Il pezzo, scritto e prodotto da Wonder, è la pietra angolare su cui si regge la nuova direzione “nera” di Whitney Houston, l’ancora saldamente nella tradizione afroamericana mentre lei si proietta nel pop del futuro. A proposito di questo pezzo, James Hunter su Rolling Stone scriveva: «Wonder, che ha inventato quel pop basato sulle tastiere che la nuova generazione trova così naturale e contemporaneo, capisce completamente Whitney Houston. Sa cosa le piace dell’espressività delle ballate, della passione del rock e del ritmo tecnologico della dance e, come ha fatto con la sua stessa musica, mette tutto questo al suo servizio». I’m your baby tonight è un album di passaggio per Whitney Houston: le apre nuovi orizzonti musicali e la prepara alla seconda fase della sua carriera, quella dell’immenso successo di The bodyguard e del suo album più bello e riuscito, My love is your love. È un album che oggi non ascoltiamo più molto ma che ha aperto la strada ad artiste come Mariah Carey e Mary J. Blige, che, in modi diametralmente opposti, negli anni Novanta hanno imparato a coniugare una sensibilità pop con i suoni più spigolosi e moderni di rnb e hip hop.

Il rapporto di Whitney Houston con il pubblico, nonostante i grandi successi, è sempre rimasto ambivalente e problematico. Nonostante crescesse come artista, non è mai stata messa in condizione di affrontare i suoi fantasmi e di dare una forma al suo dolore. Più lei cadeva in basso, dal 2000 in poi, e più i media la deridevano; quando Whitney Houston è morta era considerata universalmente un rottame, una barzelletta, una tossica che per guadagnare due lire si sottoponeva a reality show umilianti come il terribile Being Bobby Brown. In un’intervista del 1991 alla rivista Ebony, Whitney Houston aveva già tutto tragicamente chiaro: «Immaginatevi questo: ti svegli tutte le mattine sotto una lente d’ingrandimento. Ti scrutano di continuo alla ricerca di qualcosa; qualcuno da qualche parte del mondo parla di te male o bene ogni cinque secondi. Come dice il mio amico Michael Jackson: “Voi volete il nostro sangue ma non volete vedere il nostro dolore”».

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