Etiopia nel caos per l’omicidio del cantante Hachalu Hundessa

(corriere.it, 3 luglio 2020)

Hachalu Hundessa ha vissuto cinque dei suoi trentaquattro anni dietro le sbarre: non era maggiorenne quando fu condannato per aver manifestato contro il governo nel 2003. Il padre andava a trovarlo e gli diceva che «la prigione rende più forti». Su di lui aveva avuto un effetto collaterale, rendendo quel ragazzino che amava cantare mentre badava alle vacche un artista: «Come trovare i versi e la melodia l’ho imparato da detenuto», amava raccontare uno dei cantanti più amati dell’Etiopia, ucciso lunedì sera a colpi di arma da fuoco mentre era alla guida di un’auto ad Addis Abeba. I nove brani del primo album, Sanyii Mooti (La corsa del re) li aveva scritti da prigioniero.HachaluHundessaPer l’omicidio la polizia avrebbe arrestato due persone, senza rivelarne l’identità. L’uccisione di Hachalu Hundessa ha scatenato le proteste di molti cittadini di etnia Oromo: almeno ottanta persone sono morte negli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza, e una trentina sono state arrestate (compreso il leader dell’opposizione Bekele Gerba). Un bilancio terribile, che Hachalu avrebbe accolto con dolore. Una reazione che rischia di acutizzare i contrasti (come la mossa di “spegnere” Internet nella Capitale) intorno a un delitto che in tanti considerano “politico”. Il cantante era un simbolo per la più numerosa etnia del Paese, a lungo marginalizzata sulle vie del potere. Nei periodi bui aveva rifiutato l’esilio. Ora persino i suoi funerali e la sua tomba sono terreno di tensione: la polizia ha impedito a molta gente l’accesso allo stadio di Ambo, la sua città natale, dove si è svolta la cerimonia funebre. Molti attivisti vorrebbero che le spoglie fossero tumulate ad Addis Abeba, la capitale federale al centro di una disputa antica: gli Oromo la considerano terra dei clan Tulama, poi “cacciato” dall’imperatore Menelik II (il vincitore degli italiani ad Adua). Vicende remote e attualissime: pochi giorni fa lo stesso Hundessa aveva fatto infuriare i sostenitori dell’imperatore sostenendo che avesse rubato i cavalli degli Oromo, quando fece di Addis la Capitale nel lontano 1886.

Lo status della città è un nervo scoperto anche della storia recente, tra spostamenti forzati di popolazione e rivendicazioni: dopo il 2015, tre anni di sanguinose proteste hanno portato alle dimissioni del premier e all’ascesa di Abiyn Ahmed alla poltrona di primo ministro (e nel 2019 all’assegnazione del premio Nobel per la Pace). Abiy, che nei giorni scorsi si è detto rattristato «per la scomparsa di un artista straordinario», è stato il primo Oromo a diventare capo del governo. Nel 2018 aveva chiamato Hachalu Hundessa a cantare per il presidente eritreo Afeworki e della pace ritrovata (sulla carta) tra storici nemici. E anche in quell’occasione l’ex bambino che cantava alle mucche aveva dimostrato indipendenza, parlando del bisogno di giustizia ancora inascoltato e mettendo in dubbio l’opportunità di un concerto «quando ci sono famiglie che soffrono». «La musica mi ha dato fan e nemici» diceva Hachalu. Anche da morto, anche nella politica. La famiglia lo vorrebbe sepolto ad Ambu. Il padre ha criticato gli attivisti Oromo che invece spingono per averlo ad Addis Abeba e «soffiano» sull’uccisione del figlio: «Accusare il governo non è giusto, è come negare la verità di Hundessa». La moglie Fantu Demissie, rimasta sola con due figlie piccole, per stemperare le tensioni propone che nella Capitale venga eretta una statua: «Hachalu non è morto, rimarrà per sempre nel mio cuore, come nel cuore di milioni di Oromo».