Il sogno (europeo) di George Clooney presidente

di Simona Siri (vanityfair.it, 19 marzo 2018)

«Speculare sulle ambizioni politiche di Oprah Winfrey is sooo last month. Ora è il momento di George Clooney», ha scritto il Washington Post in un editoriale di qualche giorno fa. Il tono era ironico, ma la motivazione seria.Screen-Shot-2018-02-21-ClooneyDa quando lui e la moglie Amal hanno annunciato il loro sostegno alla March for Our Lives, ovvero la manifestazione organizzata dagli studenti di Parkland per sensibilizzare il Governo affinché legiferi in materia di controllo delle armi, qualcuno ha visto in questa mossa il primo passo verso un impegno più concreto di Clooney in politica e, addirittura, per una futura candidatura presidenziale. Prima, si diceva, era toccato a Oprah. Il discorso tenuto lo scorso gennaio ai Golden Globes aveva infiammato a tal punto da fare di lei la sicura sfidante di Trump alle prossime elezioni, ridotte quindi a una sfida tra celebrities. Dopo una settimana di articoli e voci incontrollate – alcune messe in giro anche da persone molto vicine a lei che non escludevano a priori la fattibilità della cosa –, Oprah stessa si era vista costretta a smentire: non mi candido. La notizia che George e Amal hanno donato 500mila dollari alla marcia contro le armi e che sfileranno a Washington a fianco degli studenti ha avuto più o meno lo stesso effetto del discorso di Oprah. Con un piccolo particolare: la notizia di Clooney 2020 è stata spinta principalmente da testate e televisioni vicine ai Repubblicani e a Trump. Il giorno dopo aver comunicato la donazione il sito Drudge Report riportava un articolo con questo titolo, tutto in lettere maiuscole, come è nel suo stile: «CLOONEY 2020 VISION?». La sera stessa Sean Hannity, uno dei personaggi più in vista di Fox News e giornalista molto amato da Trump, nel suo programma radiofonico diceva: «Il mio atteggiamento è: corri, George, corri. Se Clooney vuole candidarsi, non posso che approvare. Anche se penso che Oprah sarebbe meglio di lui». L’intento e il tono sono chiari e rientrano nella strategia di attacco repubblicana al Partito Democratico, descritto oggi più che mai come il partito delle élites e delle star di Hollywood, ma lontano dai problemi della gente comune. Sostenere, e anzi inventare, una candidatura Clooney 2020 è quindi gioco politico, prima ancora che notizia di attualità. Per lo meno adesso e per un motivo molto semplice: Clooney non ha mai detto di volersi candidare. Non solo, neanche ha mai dato segni in questo senso, ad esempio conducendo sondaggi, assumendo collaboratori, rilasciando interviste che potessero essere interpretate in tal senso, facendo insomma tutte quelle cose che di solito fanno quelli che stanno pensando seriamente di candidarsi (un esempio su tutti: Cynthia Nixon, ex Miranda di Sex and the City. Dopo averne parlato per anni, pare che abbia deciso di sfidare Andrew Cuomo alla carica di governatore dello Stato di New York. La prima mossa: ha assunto due esperti in campagne politiche). Non solo: per quanto affascinante, l’idea di George e Amal alla Casa Bianca sembra avere più presa nell’immaginario collettivo e nell’opinione pubblica europea rispetto a quella americana: sui siti di scommesse la sua candidatura è data più probabile di quella di Kanye West, ma più bassa di quella di Mark Zuckerberg. Ambizioni presidenziali a parte, che la politica sia per George Clooney molto più di un hobby non è un mistero. Il padre, Nick, ex giornalista televisivo, si candidò alla Camera per i democratici nel 2004 ma non fu eletto. George da parte sua si è sempre occupato di affari internazionali: nel 2008 ha fondato Not On Our Watch, una organizzazione non governativa che vuole portare l’attenzione sulla violazione dei diritti umani in Darfur. Più recentemente ha messo su The Sentry, un gruppo investigativo che ha accusato i leaders politici del Sudan del Sud di corruzione e di accumulare fortune personali durante la guerra civile del dicembre del 2013. Lo scorso marzo ha pubblicato su Foreign Affairs un articolo in cui illustra la sua strategia in tema di pace in Africa e di come far finire le guerre civili: in sintesi, puntare sulle sanzioni internazionali e seguire i soldi per arrivare ai responsabili signori della guerra. Se proprio ambizioni devono essere, allora a ben vedere quelle di Clooney sembrano essere più indirizzate a una carriera internazionale quasi da Segretario di Stato. Lo scorso settembre lui e Amal hanno accolto in Kentucky, dove vivono i genitori di George, un rifugiato siriano cui stanno pagando gli studi universitari. Durante l’intervista con David Letterman dello scorso mese su Netflix, George non ha fatto mistero di essere sempre meno interessato alla recitazione e sempre più a questioni sociali. La vendita delle quote di Casamigas, la società che produce tequila, gli hanno portato in tasca un miliardo di dollari. «Non ho più bisogno di lavorare per vivere», ha scherzato. Di quei soldi, ha detto, 21 milioni andranno a finanziare cause che stanno a cuore a lui e ad Amal. E magari aiuteranno candidati che lui vorrà sostenere. Che è poi un modo indiretto di fare politica, senza sporcarsi troppo le mani. Da uomo intelligente qual è George sa benissimo il livello cui si è ridotta la lotta politica attuale, sa che una eventuale candidatura esporrebbe lui, la moglie e i gemelli appena nati ad attacchi personali, a scrutinio, a perdita di libertà e serenità. Al di là delle ambizioni, sa bene che fare il presidente degli Stati Uniti è un lavoro duro, mal pagato, altamente stressante e poco gratificante. Meglio stare a lato, defilato. E più presente in famiglia. In fondo, ci ha messo 56 anni prima di fare figli. Se oggi li mette prima della sua ambizione, chi siamo noi per impedirglielo.