La biopolitica e il Coronavirus: intervista a Roberto Esposito

di Nicola Mirenzi (huffingtonpost.it, 22 marzo 2020)

Quando finirà «il contagio del Coronavirus potrebbe produrre degli effetti sovranisti, rafforzando il discorso di quanti sostengono che i confini servono, anzi vanno rinvigoriti, per contenere i pericoli a cui ci espone la spinta globale del mondo». Docente di Filosofia teoretica presso la Scuola Normale Superiore, Roberto Esposito è uno di quegli studiosi che ha raccontato la realtà che stiamo vivendo oggi con un anticipo impressionante rispetto all’attualità.ImmunitasCome quei romanzieri di fantascienza che nella Storia sono riusciti a immaginare come sarebbero state le cose molto prima che accadessero: «Sono anche io sorpreso – confessa – dalla coincidenza delle cose descritte negli anni scorsi con quelle che stanno avvenendo in queste ore». Esposito è un filosofo conosciuto in tutto il mondo per il lavoro innovativo che ha fatto su un concetto che, fino a un mese fa, la maggior parte dei comuni mortali non riusciva bene a capire cosa significasse davvero: la bio-politica. Oggi chiunque sperimenti la reclusione impostaci dal governo per fermare il contagio del Covid-19 percepisce immediatamente che tutti quei discorsi sulla vita (bìos) come terreno principale della decisione politica sono evidenti, persino didascalici.

«Michel Foucault è stato il primo a parlare di biopolitica, ne La volontà di sapere, un libro del 1976. Il concetto rimase inesplorato per diversi anni, fino a quando alcuni pensatori italiani non lo ripresero e lo svilupparono. All’inizio, la novità venne accolta con scetticismo. La biopolitica sembrava nozione poco verificabile nella realtà. Senonché, i riscontri si sono fatti via via sempre più fitti, fino a diventare sconcertanti. Dalle procedure biotecnologiche al terrorismo suicida, fino alla più recente crisi immigratoria, questioni di vita e di morte si sono installate al centro delle agende e dei conflitti politici. L’esplosione del Coronavirus, con le conseguenze geopolitiche che ne sono scaturite, ha portato al culmine la relazione diretta tra vita biologica e interventi politici».

Il libro più avveniristico scritto da Esposito si chiama Immunitas (Einaudi lo ri-pubblicherà ad aprile). Racconta il paradigma fondamentale della politica contemporanea. Ovvero, la corsa all’immunizzazione dai rischi, dagli imprevisti, dalle minacce. Con la progressiva medicalizzazione della politica – che sempre più parla di profilassi, terapie, interventi chirurgici – e la simmetrica politicizzazione della medicina – con i virologi che in nome della scienza litigano sulle misure da prendere.

Professore, le difese immunitarie italiane sono adeguate?

«Al momento, credo di sì. Diventerebbero eccessive se il governo, per proteggere le nostre vite, chiudesse tutte le filiere alimentari, produttive e di distribuzione. A quel punto, l’eccesso di difesa rischierebbe di uccidere il Paese».

Dunque, la reazione immunitaria non è in sé negativa.

«Certo che no. In una situazione normale, la presenza di un sistema immunitario protegge il corpo dell’individuo, così come protegge il corpo politico di una nazione».

Allora qual è il problema?

«Il problema comincia quando i nostri sistemi protettivi oltrepassano una certa soglia. In quel momento, accade nelle società ciò che accade ai corpi umani nelle malattie auto-immuni: la reazione troppo violenta del sistema immunitario danneggia la funzione vitale di altri organi, rischiando di portare l’organismo alla morte. È questa l’ambivalenza del paradigma immunitario».

Siamo vicini a questa situazione limite, oggi?

«In una situazione del genere, il limite non è mai troppo lontano. Finora, il governo è stato attento a non oltrepassarlo».

Fino a che punto ci si può spingere nella limitazione delle libertà prima che la democrazia ne risenta?

«L’equilibrio è delicatissimo e si regge su un bilanciamento millimetrico. In Cina è tutto molto più semplice. Un despota decide di mandare l’esercito in strada e il discorso è chiuso. Ma in una democrazia, se tutto viene messo nelle mani del Presidente del Consiglio, la libertà viene ferita. La salvaguardia delle istituzioni passa attraverso la tutela del ruolo di tutte le istituzioni. Il governo, certo. Ma anche, soprattutto, il Parlamento. E poi i partiti, i corpi intermedi, le associazioni, le organizzazioni non governative. Più queste organizzazioni continuano a operare, controllandosi a vicenda, più la nostra democrazia accumula forza per resistere a questa prova».

In questa crisi, la politica ha vinto sull’economia?

«La diffusione del contagio del Coronavirus ha posto lo Stato italiano di fronte a una scelta: proteggere la vita, oppure la produzione. La scelta è caduta sulla prima. Anche l’Unione Europea ha sospeso il Patto di stabilità, spingendo l’acceleratore sulla protezione della vita anziché delle regole economiche. Perciò, in questo momento, si può dire che la politica ha prevalso sull’economia. Non bisogna dimenticare, però, che il nostro è un sistema misto, in cui tra la decisione politica e quella economica c’è sempre un continuo intreccio».

Conte è l’uomo che decide in questo stato d’eccezione: ne uscirà rafforzato?

«Carl Schmitt diceva che il sovrano non è colui che decide nello stato d’eccezione, ma colui che decide lo stato d’eccezione. Non è stato Conte a determinare la situazione in cui stiamo. È la necessità che ha portato il capo del governo a gestire una situazione eccezionale. È come una guerra: se la vincerà, Conte conquisterà sul campo la legittimazione politica che finora gli è mancata. Se la perderà, il peso delle responsabilità che si è dovuto assumere gli franerà addosso».

Gli italiani stanno reagendo da popolo?

«In questo momento, gli italiani hanno bisogno di sentirsi uniti. Per questo espongono il tricolore, cantano l’inno nazionale, sono alla ricerca di simboli unificanti. È un fatto che il sentimento di unità nazionale si è rinsaldato».

Avevano ragione i sovranisti?

«Il desiderio di unità nazionale non corrisponde all’idea di chiudere i confini. Un conto è riconoscersi tutti italiani, un altro conto è alzare i muri alle frontiere».

La globalizzazione, dopo, sarà più logora o più robusta?

«Io credo che non si possa tornare indietro dalla globalizzazione. Il virus ha dimostrato che il sovranismo è impossibile, poiché non c’è confine che possa arrestare un contagio del genere».

Allora perché prima ha detto che avrà effetti sovranisti?

«Perché, sebbene io pensi che il virus si possa sconfiggere solo con una più forte collaborazione tra tutti gli Stati del mondo, sono convinto che – quando tutto questo sarà finito – i sovranisti riprenderanno con ancora maggior vigore il loro discorso sulla chiusura delle frontiere. Diranno: “Vedete? Ve lo avevamo detto che il mondo aperto rischia di ammazzarci”. E troveranno molte persone disponibili a prenderli in considerazione».