Savoia e Borromeo, una storia arcitaliana

di Guia Soncini (linkiesta.it, 6 luglio 2023)

Questa è una storia di mancata curva d’apprendimento, come tutte. Ma è anche una storia di pregiudizi, liberatorie, e mitomania sperimentale. Una storia arcitaliana, giacché l’italianità è quel disgraziato carattere che una vita in esilio non basta a mitigare. Beatrice Borromeo è Virna Lisi in Amarsi un po’: quella che può scrollare le spalle rimarcando quanti papi ha nell’albero genealogico.

Ph. Markus Spiske / Unsplash

Poiché, nel Paese in cui i più mitomani comprano titoli nobiliari e anelli con lo stemma per farsene non si sa bene che, se sei una Borromeo puoi non rimarcare nulla, la giovane Beatrice va a bottega dall’ultimo che in Italia abbia fatto la tv del Novecento, ovvero la tv tout court: Michele Santoro. La combinazione che ne esce è micidiale: una con la tigna delle inviate di Santoro, e l’uso di mondo di chi ha un certo arcivescovo di Milano come avo. In più, due metri di gambe e bionditudine simmetrica. A un certo punto si sposa pure col figlio della donna più bella del mondo, e francamente è troppo.

Io il documentario di Beatrice Borromeo Casiraghi non lo volevo vedere. Perché non me ne importa niente del protagonista, Vittorio Emanuele di Savoia. Perché non guardo documentari a puntate, se non li fa Scorsese. Perché no: ma questa Borromeo e i suoi due metri di gambe non possono andare a fare le influencer, come tutte? Poi un’amica che sa tutto mi ha detto: ma io di questa storia non sapevo niente. Della storia di Vittorio Emanuele che, nel mare dell’isola di Cavallo, spara a un ragazzo tedesco? E che c’è da sapere? Accendo, e scopro che è una storia arcitaliana.

Che il ragazzo tedesco era, per disgraziatissimo caso, addormentato su una delle barche con cui un gruppo di giovani romani – che nei decenni successivi sarebbero diventati classe dirigente: Nicky Pende, Giovanni Malagò, Umberto Ercole – avevano deciso di andare da Porto Rotondo a Cavallo, a fare una gita pomeridiana. Che dormivano lì perché il mare s’era ingrossato e non potevano tornare indietro, e Vittorio Emanuele già li aveva notati e disprezzati vocianti al ristorante e poi a un certo punto s’era accorto che s’erano appropriati d’un suo gommone per tornare alle barche.

Che la pallottola che ammazzò (lentamente: era agosto, morì a dicembre dopo quattro mesi d’interventi chirurgici) il ragazzo tedesco era destinata a Nicky Pende, o almeno questa è la versione dei romani (quella di Vittorio Emanuele è che non sia mica stato lui: c’era una seconda arma per Robert Kennedy, vuoi che non ce ne fosse una per Dirk Hamer?). Che la migliore amica della sorella della vittima – Birgit Hamer, bellissima e con una promettente carriera di modella prima che la vita la costringesse a fare di sé un archetipo delle Ilaria Cucchi a venire – era Paola Marzotto, futura madre della Borromeo, e figlia di Marta Marzotto (l’aristocrazia è affare di riproduzione endogamica).

Non sapevo niente, ma guardando le tre ore di Netflix è chiaro che BB sapeva tutto. Perché sua madre è amica della Hamer ma anche perché, quand’era una giornalista al Fatto, fu BB a raccontare il filmato dell’intercettazione. Nella cella in cui era detenuto nel 2006 per storie di soldi e mignotte (poi è stato assolto), Vittorio Emanuele si era vantato d’aver fregato i giudici francesi, che per Hamer l’avevano assolto. Nel filmato mimava pure l’angolazione con cui aveva sparato a Hamer: se lo metti in una sceneggiatura, devi compensare l’inverosimiglianza facendolo dirigere ai Coen.

Quindi. Hai la figlia dell’amica di famiglia della vittima che vuole fare un documentario su di te. È la stessa che ti ha già sputtanato pubblicando quell’intercettazione. Perché acconsenti a darle interviste, filmini di famiglia, accesso e possibilità di realizzare un documentario che ti farà fare una figura, diciamo, non eccelsa? Perché firmi le liberatorie? È per la connaturata mitomania che ti fa pensare che, grazie al tuo principesco e carismatico eloquio, ne uscirai comunque bene? È perché lei te l’ha venduto come un ritratto a tutto tondo, l’esilio il referendum il matrimonio contrastato con una borghese la rava la fava, e tu proprio non potevi immaginare che sarebbero state tre ore su Cavallo, tre ore su te che sbrocchi e sali su una barca e prendi a fucilate uno?

O è per la stessa ragione per cui io, senza la mia amica geniale, non avrei mai guardato The King Who Never Was? Perché tendiamo, Vittorio Emanuele e io, a sottovalutare le bionde di buona famiglia, anche se dovremmo sapere che sono quelle che mandano avanti il mondo, più dei mitomani, più delle arrampicatrici sociali, più dei volenterosi e delle api operaie. Credo sia una combinazione delle due cose. Il micidiale incastro di quella sopravvalutazione di te che ti fa pensare di poter dire che, quando nell’aula di tribunale parigina t’hanno messo le manette, ti sei chiesto se fossero le stesse di Luigi XVI, che te lo fa dire illudendoti che risulterai spiritoso e non ridicolo. E la sottovalutazione della tizia che spegne la telecamera ma mica i microfoni, di quella tizia che nell’albero genealogico ha Carlo Borromeo e Michele Santoro.

Era già successo in The Jinx, sicuramente il più bello e forse il più famoso dei documentari di questo secolo. Robert Durst, ignaro che il microfono fosse ancora acceso, aveva confessato. La curva d’apprendimento è generalmente piatta, ma che un altro pochi anni dopo potesse fare lo stesso errore appartiene sempre a quel calderone d’inverosimiglianza che se ne fai cinema devi farlo dirigere ai Coen. Lo schermo è nero, i microfoni sono accesi. VE dice a BB che avrebbe altre storie, ma mica gliele poteva raccontare davanti alle telecamere.

Per esempio, quella volta che un certo erede al trono ha ammazzato il fratello, e hanno finto non fosse stato lui, e ha poi regnato impunito e contento per molto tempo. Purtroppo non te ne posso parlare in onda, Beatrice. Non preoccuparti, Vittorio: resta tra di noi delle case regnanti europee. Sì, insomma, regnanti o giù di lì. Se non ci aiutiamo tra di noi. Il tizio al quale Robert Durst ha accidentalmente confessato è stato bravo o fortunato? Chissà se, mentre si rallegrava d’aver tenuto i microfoni accesi, Beatrice Borromeo ha pensato «sono proprio una ragazza fortunata», o se conosce la regola di Paul Newman: la fortuna è un’arte.