“Spencer” è il film che vorrebbe liberare Diana

di Stefano Piri (esquire.com, 3 settembre 2021)

Diana è una figura più classica che moderna, e le storie delle principesse sono fiabe dell’orrore da ben prima che arrivassero il Novecento, i paparazzi e la bulimia. Finché si mantiene nei binari di questa intuizione – dichiarata in epigrafe: “una fiaba tratta da una vera tragedia” – Spencer è un ottimo film, poi cominciano i problemi. Nel suo attesissimo biopic su Lady Diana, Pablo Larraìn rinuncia in partenza ai flirt con le bodyguard, alle interviste concordate, agli stilisti e ai cantanti, alla filantropia ambigua, insomma al film che molti si aspettano di vedere.

Lui e lo sceneggiatore Steven Knight scelgono invece di chiudere Diana Spencer – ancora giovane ma già prossima al crollo – nel castello-prigione di Sandringham per uno spaventoso soggiorno natalizio con la famiglia reale, in prossimità della “casa stregata” della sua infanzia. La principessa prigioniera nel castello è circondata da archetipi classicissimi, ma ingegnosamente riproposti: ci sono il Guardiano della soglia/Mago nero interpretato da Timothy Spall, la scudiera/assistente di Sally Hawkins, naturalmente la Madre Terribile Elisabetta, e addirittura i frutti avvelenati, nella forma delle portate impeccabili e al contempo di aspetto assolutamente morto, non commestibile, servite a Palazzo, ovvie proiezioni del disturbo alimentare di Diana. Siamo in una fiaba e le fiabe sono sogni riordinati per poter essere raccontati, per cui naturalmente ciò che vediamo non è del tutto affidabile, non è proprio la realtà, o meglio è la realtà attraverso lo sguardo della protagonista.

“Dove sono? Mi sono persa. Mi servono indicazioni. Non so dove sono. Sono persa”. Gli indizi fondamentali per capire ciò che Larraìn avrebbe voluto fare stanno nel prologo, con Diana che guida da sola in campagna e si ferma a chiedere indicazioni, è in ritardo e sa che questo esaspererà una volta di più la famiglia reale. Si è persa, un altro archetipo del mondo delle fiabe che però qui viene ribaltato. Diana persa è felice perché lo smarrimento è una condizione in cui contano solo l’azione e l’obiettivo, quindi il presente è il futuro. Ciò che la ossessione e la terrorizza è ritrovarsi con la sua famiglia in un luogo di tradizioni asfissianti in cui, lo dirà ai piccoli William e Harry, il futuro non c’è ed esiste solo un tempo, il passato e il presente che sono la stessa cosa. Nella casa stregata la principessa viene vestita e nutrita come una bambola, e tutto funziona al contrario al punto che per poter dire la verità Diana e i suoi figli devono ordinarselo a vicenda in un rito/gioco notturno a tema militare, mentre di giorno si parla solo di scandali e frivolezze, oppure si origlia.

Divertente, no? Peccato che alla lunga sia il film stesso a rimanere stregato dalla sua cantilena, riducendo il personaggio a una parabola che si vorrebbe semplice e invece è semplicistica, che si vorrebbe classica e invece è risaputa. Quando si tratta di risolvere il desiderio di evasione di Diana (evasione reale o immaginaria, in questo senso non fa differenza) perfino le immagini di un grande regista come Larraìn diventano banali, convenzionali fino all’autoparodia. Lo strappo della collana/capestro di perle, le tende cucite tagliate con le cesoie, addirittura un’imperdonabile corsa liberatoria sulla spiaggia con l’assistente/amica/amante/confidente. Con tutto il rispetto, qui più che dalle parti della fiaba ci troviamo da quelle del film per bambini, e l’insistito confronto metanarrativo tra Diana e Anna Bolena conferma semmai una certa banalità nei riferimenti. Perfino la conclamata stilosità di Larraìn, quando il regista cileno finalmente la ritrova, deborda e crea problemi invece di risolverli, generando un paio di sequenze finali tanto belle quanto assolutamente inutili. Dopo averci fatto assaggiare la complessità senza tempo della fiaba, insomma, alla fine il film ci rifila la favola, anzi la favoletta. Paradossalmente alla fine è proprio la struttura di Spencer a ingabbiare la figura di Diana – e una Kristen Stewart che inizia bene e finisce male, come tutto il film – in un percorso dove tutto è risaputo, negandole una fuga che poteva avere esiti molto più interessanti.