I social ci impediscono di comunicare (tanto che i politici si spostano su Whatsapp)

di Dario Ronzoni (linkiesta.it, 23 luglio 2020)

Sembrava una bella occasione: la piazza virtuale, la possibilità di collegarsi con persone in tutto il mondo. E invece, passati dieci anni da quando la rivista Time incoronava Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook, uomo dell’anno, il bilancio è tragico: i social, sostengono Guido Bosticco e Giovanni Battista Magnoli Bocchi, dell’Università di Pavia, hanno ucciso la comunicazione.front-cover-come-i-social-hanno-uccisoÈ il titolo del loro ultimo libro, edito da Guerini, con cui analizzano gli effetti (perversi) di un nuovo mondo virtuale, la cui struttura e dinamica ha creato un prima e un dopo. «La comunicazione per come la intendevamo prima è morta», spiegano a Linkiesta. «I social hanno imposto un modello fatto di incontinenza verbale che ha messo sottosopra le dinamiche tradizionali». Tra le conseguenze c’è «la morte del messaggio», ed è una cosa piuttosto seria. Esempio: fino a una decina di anni fa, per le aziende «era considerato importante avere un sito. Adesso non più, serve avere una presenza social», cosa comprensibile visto che «è, o meglio era, la “piazza” dove tutti passavano, il luogo in cui esporre la propria vetrina, farsi conoscere e sperare di vendere di più». Il problema è che le cose sono cambiate presto: la vetrina ha cominciato a farsi sentire, si è fatta invasiva, si è messa a dare consigli e suggerire dritte per piazzare meglio il prodotto. «Se le scarpe nere non vanno più, il social mi spiega che è meglio fare scarpe rosse, o con il tacco alto. Così potrò seguire le mode e continuare a vendere». Ma non è un bene? La risposta, secondo Bosticco e Magnoli, è no.

«Non siamo di fronte a un adattamento del messaggio al mezzo, come è da tradizione». Qui, al contrario, «il messaggio è adattato a seconda della sua “diffusibilità”, o “spreadability”. Si dice ciò che si sa che avrà successo, e non ciò che è vero o importante». Le conseguenze di questo modello sono sotto gli occhi di tutti: «Se scelgo di “essere comunicato” anziché comunicare allora il modello funziona. Ma se ho qualcosa da dire, allora tutto cambia: i social mi costringono a cambiare la verità. «Piazza Tienanmen è avvenuta, ed è un fatto. Ma sui social la cosa può cambiare, può essere modificata, può sparire all’orizzonte. E lo stesso vale per tutto il resto, fino alla composizione delle merendine». E, come è ovvio, alla politica. «La struttura dei social – in questo caso ci riferiamo a Facebook – è quella della piattaforma che vende contenuti non suoi. È evidente che deve promuovere, fino al parossismo, le cose che vanno e che suscitano reazioni», un meccanismo lineare che conoscono tutti. «Se uno non partecipa al gioco, finisce estromesso». È quello che capita ai politici.

Secondo esempio, allora. Matteo Salvini «è stato portato in cima dal mezzo, senza trucchi o inganni particolari, perché il suo messaggio funzionava, faceva presa, catturava l’attenzione». Ma il messaggio è morto, ricordiamo, e allora «per rimanere in alto, è stato costretto a postare quello che mangia». Il successo del social è diventato, per lui, una schiavitù, e lo ha trasformato «in una scimmietta». Ormai la politica lo ha capito, «e nelle campagne elettorali investe sempre meno su Facebook». Soprattutto in America, ma anche altrove, «il nuovo mezzo è Whatsapp». Con tutte le conseguenze: cioè il messaggio che si adatta e che non punta più sulle interazioni, ma sul rafforzamento della fiducia degli elettori. «Si gioca sull’illusione del contatto diretto. Lo stesso messaggio, mandato a migliaia di persone, viene consegnato e impostato come se fosse una comunicazione personale. Alcuni rispondono anche». (Forse sono le premesse per una nuova era del “delirio di riferimento”, cioè la condizione disturbata di chi crede che la televisione si rivolga a lui in persona. Ora sarà il messaggio di Whatsapp.)

Per uscire da questa situazione la strada, il metodo, è uno: «Tornare all’espressione. Intesa come la definiva il filosofo Giorgio Colli, cioè come una sorta di spremitura di sé stessi». Trovare, che si tratti sia di un’azienda sia di un politico, la propria identità, «cui non si vuole rinunciare», e poi lanciarsi, a seconda del successo che garantisce il mezzo, sul social giusto. «Tanti dicono: “dobbiamo farci sentire”. Giusto. Ma per dire che cosa? E a quel punto quasi tutti stanno zitti».

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