Il “discorso” dell’abito di Kate al Royal Wedding

di Aldo Grasso («Io Donna», suppl. al «Corriere della Sera», 2 giugno 2018)

Uno dei grandi dilemmi del linguaggio dell’abbigliamento è questo: è l’abito che fa il monaco o il monaco che fa l’abito? La questione è esplosa ancora una volta nei commenti che hanno accompagnato il matrimonio reale tra il principe Harry e Meghan Markle. Si è discusso, per esempio, sul fatto che Kate Middleton abbia deluso le attese sfoggiando un outfit firmato Alexander McQueen. Peccato però che fosse già la terza volta che lo indossasse.KateMiddleton-AlexanderMcQueenI commenti sono stati malevoli: indossare un look riciclato a un matrimonio non è mai un gesto elegante, specialmente se non si hanno problemi di budget e il legame con gli sposi è stretto. Sembra che non si dia importanza all’evento. È così? Altri invece hanno sottolineato il fatto che la scelta della Duchessa di Cambridge fosse stata dettata dalle migliori intenzioni. Non voleva oscurare la sposa con una mise speciale e originale. Tutti avrebbero guardato lei, come a lungo hanno ammirato la bellezza e l’eleganza di Kitty Spencer, 27 anni, nipote di Lady Diana, figlia di suo fratello Charles. Messa in questi termini la questione è un po’ ridicola (e ancora più ridicolo è che me ne occupi io, inesperto come sono di abbigliamento). Quello che invece è più interessante è che tutta la cerimonia del Royal Wedding era comunicazione, grande comunicazione, una puntata di The Crown. Parlare dei Windsor significa per forza di cose prendere in considerazione eventi mediali che hanno modellato l’immaginario collettivo degli ultimi settant’anni. L’incoronazione della regina nel 1952; le nozze di Carlo e Diana; i tragici funerali della “principessa del popolo”; i matrimoni di William e Harry (con studiate deviazioni dal protocollo). I reali inglesi vivono di un’identità fluida: sono istituzioni e allo stesso tempo icone pop globali, conservatori delle tradizioni British e insieme aperti alla contaminazione. Il mondo della comunicazione non verbale (nell’epoca dei social e dell’espressività di massa, nell’epoca cioè in cui tutti hanno qualcosa da dire) sta diventando sempre più importante. Un abito non solo “serve a” (un oggetto funzionale, sia pur guidato dalle regole della moda) ma soprattutto “dice che” (un atto comunicativo): per questo il Royal Wedding va letto come una grande pièce teatrale, una “realtà scritta”, come si usa dire per certi programmi televisivi. Quello che la Duchessa di Cambridge voleva dire non era certo un suo capriccio personale. L’hashtag #reindossalo (#loverepeats) ci ricorda che nei codici vestimentari è l’abito che “parla” il monaco.

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