Il libro della Meloni è la perfetta autobiografia d’una influencer

di Guia Soncini (linkiesta.it, 11 maggio 2021)

Nel capitolo finale del suo libro, Giorgia Piccoloprincipe Meloni dice alla figlia di ricordarsi «che il cuore vede con molta più nitidezza di quanto sappiano fare gli occhi»; è solo una delle mille frasi instagrammabili che riempiono il memoir della deputata che la sinistra odia come si odia solo una temibile rivale. Il capitolo dedicato alla figlia Ginevra («Gì», giacché lei è Giorgia, lei è una madre, ma soprattutto lei è romana) si apre con quattro versi in esergo. Sono quattro versi di Cat Stevens, della più sputtanata delle canzoni sulla genitorialità, Father and son. Padre e figlio, dedicata da una madre alla figlia. Se a sinistra scoprono cosa voleva dire davvero, la Meloni, in quel video in cui diceva che non sa cosa sia il gender, chissà che succede; se i socialmente presentabili s’accorgono che la Meloni è molto più gender fluid di loro, chissà come la prendono.

Ph. Roberto Monaldo / LaPresse
Ph. Roberto Monaldo / LaPresse

Nel primo capitolo di Io sono Giorgia (lo pubblica Rizzoli, esce oggi: non era ancora in vendita, e già da tre giorni si parlava della libraia che non lo venderà), la Meloni ricostruisce il meme (che il dio delle parole mi perdoni) da cui prende il titolo il libro. C’è una frase che non avrei mai voluto leggere, scritta da un’adulta che teoricamente ha un lavoro serio: «Tommaso Zorzi, in seguito vincitore del Grande Fratello, aveva lanciato su Instagram una challenge di protesta». Sogno una classe dirigente che non sappia i nomi dei vincitori del Grande Fratello. Sogno una generazione adulta che non sappia cosa sia una challenge. Sogno politici che abbiano dei Nokia degli anni Novanta, di quelli dai quali al massimo possono mandare sms. E invece abbiamo sindaci progressisti che passano le giornate a cuoricinare le soubrette, e allora mica possiamo prendercela con una politica che, se diventa meme, conosce le modalità con cui è avvenuto. I miei sono sogni lussuosi: me li posso permettere perché non vivo di consenso popolare. Diversamente dalla Meloni, che ha studiato lo spirito del tempo e ha deciso di spuntare tutte le caselle sul modulo d’adesione al secolo fragile.

L’infanzia di privazioni, compreso un nonno che fa gareggiare lei e la sorella mettendo in paio cinquemila lire che poi non ricevono mai? C’è. La culonaggine (in neolingua: bodyshaming) che la fa irridere dai coetanei cattivi? C’è. Il trauma del padre che la abbandona? C’è. Il cane della sua infanzia, menomato per colpa della scorta d’un politico (scommetterei: di sinistra), cui Giorgia non ha mai smesso di pensare? C’è. I riferimenti alti e bassi, la Garbatella dei Cesaroni e di Caro diario? Ci sono. La nonna che ogni volta che la vede, anche da obesa, le dice «A ni’, mangia, che sei troppo magra»? C’è. La figlia Gì con la casa piena di giocattoli mentre lei da piccola poteva tenere tutti i giochi che possedeva in una scatola da scarpe? C’è. I sensi di colpa della madre moderna che ha un’intervista alla radio ma proprio in quel momento la figlia pianta un capriccio e gliela tolgono di torno piangente e lei deve parlare del recovery fund mentre guarda la piccina che pieni di pianto ha gli occhi e «in quel momento mi sono sentita un verme»? Certo che ci sono, non potevano mancare.

Gli ideali puri che in C’eravamo tanto amati (1974) Gassman molla sensatamente appena incontra una ragazza ricca e che invece noialtri, pubblico contemporaneo, vogliamo raccontarci di conservare ancora da adulti? Ci sono, Giorgia è lì pronta a farci specchiare nel contrario di quel «Volevamo cambiare il mondo e il mondo ha cambiato noi» davanti al quale avevamo sospirato al cinema. Scrive: «Al termine del percorso, ognuno di noi dovrà rispondere a questa domanda implacabile: Sono riuscito a cambiare qualcosa del sistema, oppure ho lasciato che fosse il sistema a cambiare me?»; e la risposta sottintesa è che lei no, lei non è cambiata, lei è sempre sé stessa, proprio come la influencer media, la concorrente di Grande Fratello media, l’elettrice media. «Niente trucchi, niente inganni», scrive, lo scrive davvero, senza alcun distacco ironico, pronta a instagrammare un tramonto con didascalia «no filter». La scena traumatica d’infanzia con lei unica bambina alla festa di Carnevale a scuola cui la mamma non abbia fornito una maschera? C’è pure quella, e c’è la sorella amatissima (cui la Meloni annuncia la gravidanza prima di dirlo al padre di Gì), che da ragazzine era la sorella figa «costretta a portarsi dietro un tubero», cioè Giorgia, la sorella non figa: è la perfetta autobiografia d’una influencer, il perfetto soggetto per una serie sulla dolenza delle piccole cose di Netflix. C’è persino lei che vorrebbe godersi la gravidanza finché non le dicono che deve fare la mamma. E «quell’assurdo invito di Bertolaso a restare a casa con il biberon davanti al seggiolone» la fa decidere a continuare la campagna elettorale: non vi sembra una di quelle attrici da copertina che denunciano il gravissimo fatto che alle donne si chieda come concilino lavoro e maternità? «Persi da candidata, ma vinsi da donna, da mamma»: non è perfetto spirito del tempo? («Se dicevano a me, una privilegiata, che dovevo farmi da parte perché aspettavo un bambino, che cosa avrebbero potuto fare a una giovane donna precaria in un call center, al momento della gravidanza?»: fossi una politica di sinistra mi guarderei dalla Meloni, in corsia di sorpasso mentre io perdo tempo col grave problema dei fischi per strada).

Io sono Giorgia contiene anche la più interessante propaganda contro l’aborto che abbia mai letto. La madre della Meloni doveva farsi aspirare l’embrione che poi sarebbe diventato Giorgia, senonché sulla soglia del laboratorio di analisi cambia idea. «Sente di aver preso la decisione giusta. Adesso deve solo ratificarla, in qualche modo. In qualsiasi modo… Sul marciapiede opposto scorge un bar, attraversa la strada ed entra. Buongiorno, un cappuccino e un cornetto. Digiuno infranto, analisi boicottate, interruzione di gravidanza dissolta in una bolla di sapone». Credevamo che la questione dell’aborto fosse complessa, e invece basta un cappuccino ben fatto (peraltro a Roma rarissimo, sarà per questo che si ostinano ad abortire: basterebbe impiegare baristi meno incapaci nei pressi dei reparti maternità). Il passaggio sulla madre che avrebbe dovuto abortirla era stato anticipato e viene discusso da giorni, in interviste televisive e non. È curioso che nessuno abbia notato che Giorgia Meloni è nata nel 1977, e l’aborto in Italia è stato illegale fino al 1978.

Mi aspetto, in compenso, che molto venga usato contro di lei il passaggio in cui chiosa l’assenza del padre: «Mentre difendo la famiglia naturale fondata sul matrimonio – credo che lo Stato debba incentivare la forma di unione più solida possibile, proprio guardando ai figli – sono testimone di come, anche in una famiglia nella quale una delle due figure genitoriali viene meno, si possa crescere perfettamente felici, grazie al sacrificio di chi si sobbarca questa responsabilità». Poiché in questo mondo di sestessismo instagrammabile non ci interessa la qualità delle idee, ma solo quanto esse corrispondano all’autobiografismo, già le è stato molto rinfacciato di non essere sposata col suo compagno. Ma come, e con che coraggio parli di famiglia tradizionale, ha berciato un’epoca così incapace di argomentare da doversi attaccare ai dettagli biografici. Figuriamoci ora che ha detto che è cresciuta bene senza padre. Come osa rivolgersi a quell’elettorato che crede nella famiglia tradizionale, come osa non essere sé stessa sestessamente. Proprio lei, impeccabile fornitrice di frasi instagrammabilissime, un po’ dolenti e un po’ romantiche, perfette per madri influencer che si fotografino col culo di fuori ma con didascalia che faccia capire che son donne di contenuti: «Se le donne non riescono a essere davvero solidali tra loro, tutte le mamme lo sono. Di quella solidarietà di cui sono capaci solo i veterani usciti vivi dal fronte». A dire che i figli li fanno anche i gatti non si prende neanche un voto. A parlarne come d’un’esperienza estrema, il consenso elettorale si moltiplica più velocemente dei meme.

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