Joséphine Baker nel Panthéon

di Catherine Cornet (internazionale.it, 1° dicembre 2021)

Dal 30 novembre la Francia onora Joséphine Baker collocando nel Panthéon di Parigi, dove sono ricordati ottantuno uomini e cinque donne illustri della repubblica francese, un monumento funebre a lei dedicato. Ma visitando il Castello delle Milandes, nel cuore della Dordogna, si scopre una Joséphine Baker dalle vite multiple. Questo piccolo gioiello rinascimentale sembra ancora abitato: per trent’anni è stato la casa della ballerina e cantante delle Folies Bergères, della coraggiosissima resistente al nazismo e della madre antirazzista ante litteram. All’ultimo piano ci sono tantissimi lettini: qui infatti Joséphine Baker ha cresciuto i suoi 12 figli adottivi provenienti da tutto il mondo, dal Giappone alla Finlandia, dalla Colombia all’Algeria.

Chesnot / Getty Images

Con la sua “tribù”, Baker voleva dimostrare la possibile coesistenza tra le persone al di là del colore della pelle o della provenienza, testimone di una fratellanza universale. Discendente di schiavi, nata nel 1906 nel Missouri, ha vissuto un’infanzia difficile negli anni violentissimi dell’odio razziale e della segregazione, quando il Ku Klux Klan seminava terrore in particolare negli Stati del Sud. Approdata a Parigi nel 1926 per esibirsi nella Revue Nègre, scopre invece la Capitale multiculturale degli anni Venti, dove, nelle Avanguardie, vige un’adorazione per l’arte e le espressioni africane, la négritude di Aimé Césaire sta decollando, Picasso e Braque sono ossessionati dalle arti africane. Un vero “tumulto nero” nella Capitale, lo definisce lo storico Pascal Blanchard nel suo libro La France noire. Joséphine Baker balla come nessuna prima di lei, mischia il charleston, i ritmi delle années folles e il cake walk, il modo di ballare degli schiavi in America che prendevano in giro i maestri con i vestiti buoni della domenica. Balla a seni nudi, porta la famosa cintura di banane e riesce a ribaltare con la sua ironia e il suo talento tutti i simboli e i pregiudizi dell’epoca. Questa sua gonna di banane racchiude l’essenza di Baker: la gonna è chiaramente un simbolo esotico e coloniale, ma è riuscita – come scrive Lilian Thuram in Corps noir, regard blanc, prefazione del catalogo della mostra Le modèle noir – a rovesciare lo sguardo, per la prima volta in Francia, e a trasformarlo in “un atto di emancipazione”. Altre dive più contemporanee – come Grace Jones o Beyoncé – l’hanno, infatti, indossata in omaggio alla Baker.

Molti hanno dimenticato quanto fosse conosciuta la diva alla sua epoca: era la donna più fotografata al mondo, l’artista più pagata in Francia. Il suo taglio alla garçonne veniva copiato da tutte le parigine –- anche se il look androgino faceva ancora molto scalpore. È stata la musa della haute couture francese, in particolare di Christian Dior, ogni maison voleva “mademoiselle Baker” come modella. Fu anche per copiarla che cominciò in Europa la moda dell’abbronzatura, spiegano nel Dictionnaire du corps il filosofo Bernard Andrieu e l’antropologo Gilles Boëtsch: le donne francesi hanno cominciato a “coprire la pelle con l’olio di noce”, un colorante naturale estratto dalla corteccia di noce, proprio per “somigliare a Joséphine Baker”. Oggi tale fenomeno è letto con sguardo critico verso le black face. Anna Topaloff, in un articolo del numero speciale del Nouvel Observateur dedicato all’artista, ricorda però quanto questa moda sia stata gestita dalla Baker, che “ha saputo capitalizzare il suo status di icona”. Negli anni Trenta fondò un suo marchio di cosmetici con il Baker Oil, pubblicizzato come il primissimo autoabbronzante al mondo. “Fino ad allora, una carnagione abbronzata era considerata un segno di appartenenza alle classi lavoratrici, quelle che faticavano alla luce diretta del Sole, nei campi o nei cantieri. Ma l’immensa popolarità di Joséphine Baker rese antiquata la pelle diafana della borghesia”.

Nel 2013, dopo aver letto l’editoriale del filosofo Régis Debray che proponeva la sua entrata al Panthéon, il saggista Laurent Kupferman ha lanciato una petizione, Osez Joséphine (Osare Joséphine, in riferimento a una nota canzone del cantante Alain Bashung), che ha raccolto 25mila firme. Kupferman spiega: “Joséphine Baker è ciò di cui abbiamo tutti bisogno in questo momento. È la prova che, nella repubblica francese, tutto è possibile, che ci sono pari opportunità e che, oltre ai diritti, abbiamo anche dei doveri. Nell’attuale contesto di tensioni identitarie, la sua panteonizzazione ci farà bene”. Questo richiamo all’universalismo trionfante francese mette a disagio alcuni intellettuali, come l’editorialista Rokaya Diallo, che scrive: “Temo che sia diventato il pretesto per un discorso mirato a far bella la Francia e mettere facilmente a tacere le legittime critiche”. Per il presidente Emmanuel Macron si tratta senza dubbio di un forte gesto simbolico e politico, che gli assicura un’immagine antirazzista flirtando allo stesso tempo con le idee della destra identitaria nell’ambito della campagna elettorale. Di fatto, onorare la memoria di Joséphine Baker mette molti d’accordo in Francia: c’è un vero consenso intorno all’artista, inattaccabile anche perché ha vissuto fuori degli schemi – dell’epoca come odierni.

La sua nomina al Panthéon ha anche rilanciato la ricerca storica sulla sua figura di militante nella Resistenza. In una video-inchiesta Le Monde dettaglia il suo ruolo durante la seconda guerra mondiale, che le valse la Legion d’onore nonché la Croce al valore militare. La diva cantava per le truppe per sollevare il loro morale e, con i suoi concerti, raccoglieva anche somme stratosferiche – l’equivalente di più di 2,5 milioni di euro di oggi – che poi venivano versate direttamente alla Resistenza. Ora si è scoperto che ha anche avuto un ruolo chiave nei servizi segreti: serviva di copertura all’agente del controspionaggio francese Jacques Abtey, che si faceva passare per il suo manager ovunque nel mondo. Intanto, lei incontrava delegati italiani e giapponesi prima che i due Paesi entrassero ufficialmente in guerra. Cosa si poteva immaginare di meglio che la piena luce di una star per nascondersi? Dopo la guerra, Baker tornò negli Stati Uniti a sostegno della lotta antirazzista. Sarà l’unica donna a parlare durante la marcia di Washington nel 1963, ricordata per il famoso discorso di Martin Luther King “I have a dream”. Vestita da luogotenente delle forze della Francia libera.

Il giorno dell’entrata della diva al Panthéon, il polemista di estrema destra apertamente razzista Éric Zemmour ha annunciato la sua candidatura alla presidenza. Per Blanchard non è un caso: “Attraverso la sua stessa vita, Joséphine Baker dimostra che la Francia non è solo un Paese coloniale e oppressivo, ma un Paese più complesso di quanto dice la sua caricatura, dove coesistono nerofilia e nerofobia, il fascino e l’odio verso l’altro. Baker è il simbolo perfetto di questo paradosso”. Baker sarà così ricordata come il perfetto simbolo della bellezza e dell’energia scatenate dalle identità multiple: con la sua canzone più famosa affermava di non voler scegliere un luogo, né una nazione definita, bensì di avere “due amori: il mio Paese e Parigi”.