La mostrificazione del dissenso

di Guia Soncini (linkiesta.it, 5 novembre 2021)

Chissà perché non proiettano Quinto potere nelle scuole. Me lo chiedo ogni giorno, assistendo allo spettacolo d’arte varia degli inquilini dei social che trasecolano perché il loro cancelletto non è diventato legge, norma, educazione collettiva. Perché i loro buoni sentimenti non regolano il mondo. Perché la loro bellezza interiore non è apprezzata. «Si alza, dentro al suo piccolo schermo a ventuno pollici, e ulula dell’America e della democrazia. Non c’è nessuna America, non c’è nessuna democrazia. Ci sono solo la Ibm, e la Itt, e la At&t, e Dupont, Dow, Union Carbide, e Exxon. Queste sono oggi le nazioni del mondo. Di cosa crede parlino i russi nei loro consigli di Stato: di Karl Marx?».

Tra dieci giorni Quinto potere [Network, di Sidney Lumet, 1976] compie quarantacinque anni, sono quarantacinque anni che Howard Beale dal televisore esorta gli americani ad affacciarsi alla finestra e a urlare che non ne possono più (pensateci, quando vi fate la bislacca idea che il populismo nell’era dei mezzi di comunicazione di massa l’abbiano inventato Gian Antonio Stella o Beppe Grillo o Donald Trump), e sono quarantacinque anni da quando quello che era diventato un format che moltiplicava gli ascolti si trasformava in un danno, troppe prediche anticapitaliste e gli arabi avevano ritirato gli investimenti e il capo della multinazionale lo convocava e gli faceva una stupenda tirata (Paddy Chayefsky, lo sceneggiatore, era imbattibile sulle tirate). Sono quarantacinque anni che non serve aver studiato: basta essere andati al cinema, per capire che conta solo l’economia. E invece. E invece ti aggiri per i social – che forse sono persino specchio della realtà, anche se l’idea mi terrorizza: voglio credere ci siano, nascosti in capanne di Unabomber non cablate, cittadini sani di mente – e gli adulti sembrano cinquenni che frignano perché la mamma non gli vuole abbastanza bene. Che la mamma sia la Rai, che scrittura per Sanremo il più formidabile intrattenitore italiano (roba che il secondo, chiunque egli sia, sta tre giri di pista più indietro) e lo fa senza filarsi il collegio elettorale di Twitter che ne disapprova il mestiere. Il mestiere di fare tutte le battute che vuole e non scusarsi quando qualcuno immancabilmente s’offende. Con che coraggio la Rai chiama Fiorello, quando il cugino di Paperina72 fa ridere sempre tutti senza mai offendere nessuno alle cene di Natale?

Che la mamma sia Ivan Scalfarotto, colpevole di aver sottolineato la distinzione tra stalinismo e appartenenza a una sinistra occidentale: «Vorrei chiarire ora e per sempre che il fatto che io sia gay, insomma, non mi impedisce di pensarla diversamente dal Palermo Pride o da altre associazioni Lgbt e di rivendicare con piena convinzione la fondatezza delle mie opinioni». Scalfarotto – riassumo casomai foste persone serie e non buttaste energie a seguire la polemica scema dell’ultimo quarto d’ora – ha osato essere invitato a presentare il libro di Francesco Lepore sul delitto di Giarre. Libro che evidentemente le associazioni gay che hanno invitato a boicottare l’incontro non hanno letto, così come non hanno letto il sussidiario alle elementari, sennò i fondamentali di come la politica sia l’arte del compromesso non glieli dovrebbe spiegare Scalfarotto. Che peraltro spiega loro anche che, con una simile intolleranza e mostrificazione del dissenso, danno ragione a chi temeva che la Zan fosse un pericolo per la libertà d’opinione: «Certo, non posso non notare che avranno gioco facile coloro che, sulla base di questa contestazione dell’associazionismo Lgbt nei confronti di una persona omosessuale “non allineata”, probabilmente affermeranno che il proposito di quella parte del mondo Lgbt italiano non fosse quello di arrivare a una legge che ispirasse il nostro ordinamento a principi di inclusione e di rispetto ma di limitare la libertà di opinione di coloro che la pensano diversamente. Un altro capolavoro politico, non c’è che dire».

Poiché c’ero, all’alba dei social, e ricordo bene quando parlavamo di Scalfarotto come fosse un cretino, devo dirvi che mi fa una certa impressione ritrovarmi qui a constatare la sua lucidità e a vergognarmi d’averlo sottovalutato. C’entreranno gli orbi in terra di ciechi, certo, ma insomma una riflessione su questo tempo che ci costringe a considerare Berlusconi uno statista e ad avere nostalgia di Forlani andrà fatta. Aver avuto vent’anni quando si considerava il punto più basso della storia dell’uomo il fatto che a vincere le elezioni fosse stato un partito con dentro Lucio Colletti può essere fonte d’un certo qual imbarazzo retrospettivo, se campi abbastanza a lungo da veder vincere le elezioni un partito con dentro Alessandro Di Battista. (Dice Di Battista, l’Howard Beale che questo secolo si può permettere, che parte in tour per vedere se esiste la «richiesta collettiva» di una nuova forza politica che in caso lui fonderebbe, a gentile richiesta. Speriamo sia un tour in cui fa i grandi successi e non i pezzi nuovi, almeno). Ma torniamo all’elenco delle mamme anaffettive, quelle che fanno piangere l’adulto cinquenne dell’Internet. Un ruolo che riesce a toccare persino a me, con tutta la devozione che ho per la mia sterilità.

Pochi giorni fa alcuni adulti hanno frignato perché ho scritto che i maschi si sono appropriati del rosa. Citavo un golfino di Prada con cui Jake Gyllenhaal si è fatto fotografare sulla copertina dell’inserto patinato del Sunday Times. Poiché gli adulti cinquenni non solo non hanno sfogliato il sussidiario da piccoli né Karl Marx da grandi, ma neanche hanno visto Il diavolo veste Prada, pensano che quel golfino rosa parli della loro libertà d’espressione e della loro identificazione di genere; non del fatto che, se riescono a vendere il rosa ai maschi, le multinazionali della moda fattureranno molti più golfini. Dice Aaron Sorkin, sceneggiatore ed erede della passione di Chayefsky per le invettive, che nessuno, «neanche Orwell, ha visto il futuro con la precisione di Quinto potere». Certo, l’everyman che non capisce la prevalenza dell’economia non è più un conduttore televisivo, e i social e i loro abitanti sono come l’inquisizione spagnola dei Monty Python: nessuno se li aspettava. Ma sono dettagli. Ieri sfogliavo un New Yorker del 1998. C’era una vignetta in cui un padre indicava al figlio il panorama fuori dalla finestra: «Un giorno tutto questo sarà di Bill Gates». Il fatto che dica Gates e non Zuckerberg la rende datata. Datata, mica inattuale. Mica se nell’invettiva di Quinto potere ci sono multinazionali di cinquant’anni fa allora è meno illuminante. Mica siamo ancora così scemi da pensare che il segno della nostra affermazione personale sia un golfino rosa, o urlare alla finestra. O sì?