La Serbia è Novak, Novak è la Serbia

di Antonella Piperno (agi.it, 12 gennaio 2022)

Tra Grande Slam e Grande Serbia, Novak Djokovic potrebbe avere già scelto. A fornire la chiave di lettura dell’intricata vicenda tennistica, sanitaria e politica di cui Nole è protagonista assoluto in Australia, ci ha pensato suo padre Srdjan, qualche giorno fa, in un incontro stampa. “La Serbia è Novak, Novak è la Serbia” ha tuonato Djokovic senior. Non una frase buttata lì, se si pensa che la popolarità del numero uno del tennis mondiale nel suo Paese non ha eguali e non da un giorno. Una sovrapposizione fra personaggio e nazione che esce decisamente rafforzata, per quanto riguarda il caso Australia, e a cui si potrebbe pensare che il tennista numero uno del mondo abbia guardato dal primo momento.

Facendo della sua trasferta australiana non un incredibile errore di comunicazione capace di minare la sua carriera ma, forse, un formidabile strumento su cui fondare il suo futuro post-tennistico. Ormai vicino, considerando le 35 candeline che spegnerà il 22 maggio prossimo. Ma ci vuole un passo indietro. La Serbia, Paese in cui lo sport è il complesso di simboli prediletto dal nazionalismo, ha vissuto un 2021 da incubo, soprattutto per mano dell’Italia fra l’altro. Nell’amatissimo basket la Nazionale ha fallito l’accesso ai Giochi di Tokyo perdendo il match decisivo (a Belgrado) contro gli azzurri di Meo Sacchetti. Una botta tremenda. Nel calcio ha fallito l’accesso agli Europei perdendo (a Belgrado) il match decisivo di qualificazione per mano della Scozia al quinto calcio di rigore. Nel volley maschile la Nazionale (campione d’Europa) era stata battuta dall’Italia 3-0 ed esclusa nel 2020 dai Giochi nel Preolimpico di Bari, ed è stata sconfitta dalla Bulgaria guidata dal grande tecnico italiano Silvano Prandi nel successivo torneo che avrebbe potuto riportarle nel gruppo olimpico. E la squadra del volley femminile? Ha perso la finale dell’Europeo (a Belgrado) contro l’Italia di Paola Egonu e socie. Lo stesso Nole, partito per centrare il Golden Slam (i quattro majors più l’oro Olimpico), è crollato contro Zverev ai Giochi e contro Medvedev in finale a New York.

Mai come in questo momento la Serbia ha bisogno di un leader totale, e Djokovic è inteso così dai suoi connazionali e sicuramente non solo per i venti Slam vinti. È l’uomo che incarna un sentire comune e, perché no, potrebbe pure candidarsi a guidarlo quel sentimento. Il minimo comun denominatore della sua vita è questo, per il resto si adatta alle situazioni. Leader del neo veganismo-sportivo (nel gruppo c’è anche anche Lewis Hamilton) e dunque, almeno idealmente, simbolo di un approccio non da maschio alfa alle cose della vita, ma contemporaneamente capace di andare a cena e farsi fotografare con Milan Jolovic, ex comandante dei Lupi della Drina, formazione militare che partecipò al massacro di Sebrenica. Non esattamente un pacifista vegano. No vax convinto ma non dichiarato che, però, dona un milione di euro a Bergamo, città martire del Covid-19. Dominatore del tennis mondiale per anni nel board Atp, capace tuttavia di fondare pochi mesi fa (con il canadese Vasek Pospisil) la Ptpa, una sorta di “corrente” concorrente di Atp, tesa, nelle dichiarazioni dei fondatori, a combattere per ottenere maggiori premi e opportunità per quei giocatori (dalla centesima posizione in su) professionisti che col tennis non campano o quasi; ma che molti ritengono sia un tentativo di opporsi al peso che le famiglie Nadal&Federer hanno all’interno di Atp. Nole che si fa fotografare con i bambini (è successo anche a dicembre, mentre era già positivo al Covid-19) ma rischia di decapitare un’incolpevole giudice di linea scagliando una pallina a duecento all’ora per rabbia, facendosi squalificare dallo Us Open nel 2020.

Djokovic è tutto questo e, per dirla come suo padre, tutto questo è la Serbia. Ecco perché è difficile non pensare a lui con un ruolo ben superiore a quelle di ex tennista nel prossimo futuro. L’identificazione fra lui e una nazione riporta alla mente (pur muovendo da presupposti diversi) quella di George Weah con la Liberia: uno sportivo leader che riassume nei suoi gesti il mood di un Paese e, alla fine, arriva a comandarlo. E la sensazione è che ogni passo che potrebbe apparire falso ai più, nel suo prossimo futuro potrebbe non essere altro che l’ennesimo mattoncino posato nella costruzione di questo progetto.

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