L’album con cui Marvin Gaye liberò la musica black dai suoi cliché

di Carlo Massarini (linkiesta.it, 29 maggio 2021)

«Man, what’s happening?», un chiacchericcio iniziale in slang, musicisti che si preparano, dopo pochi secondi si apre su un ritmo che pulsa mediolento, rilassato, le congas che accolgono un riff di sax. E su questo tappeto morbido, accompagnata da un coro che lo raddoppia, si appoggia una voce… Mother, mother… «Madre, madre / ce ne sono troppe di voi che stanno piangendo / Fratello, fratello, fratello / ce ne sono fin troppi di voi che stan morendo / Sai che dobbiamo trovare un modo / per portare un po’ di amore qui, oggi».

whatsgoingonPoche righe, cantate con un tono di empatia addolorata, evocano la tragedia del Vietnam, invocando un raggio di amore su una generazione mandata allo sbaraglio, ancor di più se è povera e colored. Più che una protesta è un canto accorato di quelli condivisi, perché è qualcosa nell’aria. Un’invocazione a fermarsi prima che sia troppo tardi. «Padre, padre / non dobbiamo alzare ancora di più la tensione / Vedi, la guerra non è la risposta / perché solo l’amore può conquistare l’odio / Sai che dobbiamo trovare un modo / per portare un po’ di amore qui, oggi». Marvin invoca mamma e papà perché i suoi due genitori rappresentano tutti quelle famiglie in cui qualcuno manca all’appello, o magari è tornato ma non c’è più con la testa. Invoca il fratello: “brother” è qualsiasi fratello, potrebbe essere il suo, che nel Vietnam c’è stato, e glielo ha raccontato. O qualsiasi altro soul brother in giro, ci si chiama così anche se non ci si conosce. La guerra non è una risposta, solo l’amore può conquistare l’odio.

Ma non è solo una guerra in un Paese lontano che Marvin canta, c’è anche tanto di America contemporanea. La canzone è nata un anno prima, quando Renaldo “Obie” Benson, voce del quartetto dei Four Tops (altro fiore all’occhiello della Motown), ha visto dal tour bus la polizia picchiare la gente che protestava contro la guerra a Berkeley, nel People’s Park. «Mi sono chiesto, che sta succedendo qui? Perché mandano i loro figli a combattere in un altro continente? Perché attaccano i loro stessi figli nelle strade?». Ne scrive una canzone, e quando gli altri Four Tops gliela bocciano dicendo che è una canzone di protesta, non sia mai, lui risponde «no, è una canzone d’amore. Non sto protestando, voglio sapere cosa sta succedendo». «Linee di picchetti e cartelli di picchetti / non punirmi con brutalità / Parlami, così che tu possa vedere / quello che sta succedendo, what’s going on…».

Che sta succedendo? O meglio, visto che il punto interrogativo non c’è, questo è quello che sta succedendo in quell’America mentre va verso la fine della decade, e razzismo, brutalità della polizia, povertà, disoccupazione, ghetti e decadenza nelle aree suburbane sono tante espressioni di una società malata che sta combattendo contro i suoi demoni. A Marvin, Obie gliela fa sentire una prima volta, e lui suggerisce di farla incidere a uno dei tanti gruppi vocali della Motown, The Originals. Benson insiste, lo convince, lui aggiunge musica, parole più personali e «una sensibilità da ghetto, ha preso una canzone e l’ha trasformata in una storia». Sono strofe accorate ma tutt’altro che ribelli, hanno quella dolcezza amara di chi vede un mondo che crolla intorno a sé, ma Bob Dylan era stato mille volte più tranchant, gli Staple Singers più appassionati, James Brown più diretto. Eppure le strofe di What’s going on aprono un album rivoluzionario, in cui la superstar dell’impero di Hitsville U.S.A. a trent’anni apre un ciclo nuovo nella black music.

È un momento storico in cui s’intrecciano cambiamenti epocali: per lui, in primo luogo, artista che per la prima volta nella storia della Motown rompe con la dirigenza e si produce da solo, fuori dagli schemi. È la grande metafora dei neri d’America, in fondo, raggiungere l’indipendenza, la libertà (nel caso specifico, anche da uno dello stesso colore). E per la musica afroamericana, che con questo album – considerato da molti il disco più bello della soul music, e per Rolling Stone il migliore in assoluto, spodestando il Sergente dei Beatles, in vetta fin dall’inizio della madre di tutte le classifiche – rinasce. Un album diverso dalla solita raccolta di hit+comprimari, come quelli precedenti di Marvin e di tutta la musica pop degli anni Sessanta. Questo è il primo vero album – nel senso di unità di pensiero – del soul. Un album che apre al pubblico la visione di un uomo i cui brani compongono un unico grande affresco, brani uno nell’altro senza interruzioni, come a dire che è tutto collegato, i cui temi sono quelli di cui abitualmente non si canta se vuoi avere delle hit: la guerra, l’ecologia, il Signore, i fratelli in difficoltà. Non così, non tutto insieme. È un album di abbandono e di consapevolezza, che nasce da un misto di sconforto e di speranza, e diventa lo stargate attraverso cui passerà molta musica nera degli anni Settanta, più libera di uscire dai cliché e di cercare d’interpretare quello che succede nella vita reale. Compresi quelli della stessa scuderia: Stevie Wonder, per citarne uno, seguirà le sue tracce e beneficerà della libertà creativa finalmente raggiunta.

Marvin Gaye, alla fine degli anni Sessanta, è al picco della sua carriera di stilista del soul. Il ragazzo nato a Washington in una famiglia povera, mamma che fa le pulizie e padre che lavora occasionalmente, preso dal ruolo di fondatore di una setta che mischia concetti di ebraismo e cristianesimo con regole rigidissime, cresce in chiesa e lì nasce la sua passione per la musica. L’unica libertà lasciata agli adepti è quella del canto durante le cerimonie, e lui ci si tuffa, anticipando quello che sarà per tutta la sua vita il dualismo difficilmente gestibile fra passione per il Signore e passione carnale. Uno standard del passaggio fra gospel e secolarità, forse più embedded di altri in Marvin Gay (la “e” la aggiungerà al momento d’intraprendere una carriera) per la sua sensualità innata. Col padre da subito ha una relazione difficile, rude, che un giorno sfocerà in tragedia. Quando inizia la trafila alla neonata Tamla-Motown, a Detroit, mica lo fa da cantante: all’inizio come session man suona il piano, la batteria sul famoso Shop around dei Miracles, con Smokey Robinson che gli grida “picchia forte” quando lo vede troppo rilassato.

Fa parte di quello straordinario, irripetibile gruppo dei Funk Brothers, l’insieme di quasi una cinquantina di musicisti “fissi” della scuderia. Sono loro che, a rotazione, hanno suonato dietro quella raffica di hit che hanno dominato le classifiche. Il fondatore dell’etichetta, Berry Gordy Jr., molto padronale nei modi e nell’intendere la musica che deve uscire dalle presse, che con Marvin ha da subito un rapporto tutt’altro che morbido, in tutti gli anni Sessanta non darà mai a coloro che hanno creato il sound Motown i giusti crediti. Non li lascerà liberi più di tanto di esprimersi e, anche se produttori diversi useranno la loro maestria in progetti diversi, i loro nomi non compaiono mai su alcun disco. Troppi da nominare qui, ma il contributo di Joe Messina e Robert White all’elettrica, Wild Bill Moore ed Eli Fountain al sax, Chet Forest alla batteria e Bob Babbitt e James Jamerson al basso è decisivo: tutte queste figure invisibili ma fondamentali, non a caso, avranno per la prima volta i loro nomi nei crediti proprio su questo album. Infine, Marvin è alle tastiere, e c’è la grande Detroit Simphony Orchestra a rendere l’album ancor più ricco.

Nei primi anni a Detroit Gaye non ha ancora affinato la voce, e tantomeno trovato lo stile, la direzione: per lui il soul è troppo in là, gli piacciono Perry Como e i crooners, se c’è un sogno in testa è quello di diventare il Sinatra nero. Nel frattempo s’innamora di Anna, una delle due sorelle del boss, più vecchia di lui di quattordici anni, ed è passione ed estasi, presto sarà anche tormento. Poi c’è Gwen, ottima donna d’affari, quello scorre nel sangue della famiglia, e la Tamla-Motown nasce proprio dalla fusione di alcune etichette che i tre dirigono, con in catalogo alcuni artisti di quelli che la Motown renderà poi famosi. Anna è la sua prima donna vera e diventa la sua Musa, aiutandolo a crescere, a chiarirsi le idee, a rifinirsi sempre più come cantante, fino ad arrivare al mega-hit I heard it through the grapevine, sorta di prototipo di funk ipnotico; i Creedence Clearwater Revival ne faranno una gran versione. Lo scrive con Barrett Strong il produttore Norman Whitfield, il creatore del suono dei Temptations (che presto porterà in territorio di black psychedelia).

Berry sente il pezzo nelle settimanali session con il Dipartimento di Controllo di Qualità, che chissà che vuol dire ma che agisce come una sorta di super-parere sull’uscita o meno di un pezzo come singolo. La prima versione di Smokey e i suoi Miracles viene bocciata, così come successivamente da parte di Gordy stesso quella di Gaye, in cui i Funk Brothers hanno accelerato un bel po’ sulla funkitudine della Casa. Whitfield non batte ciglio, lo riarrangia con molto più ritmo per emulare la Respect di Aretha Franklin e lo porta a Gladys Knight & the Pips, numero uno e due nelle classifiche che contano, la r’n’b (neri) e quella pop (bianchi). Mettetevi nei panni di Marvin, si sarà sentito come uno a cui hanno svaligiato casa. Ma un anno dopo – quando c’è buona musica c’è buona sorte – quel meraviglioso arrangiamento, piano elettrico e tom tom tribali, gli archi che contrappuntano e i cori che accompagnano, elettrica che scandisce e lui che entra ed esce dal falsetto, la storia del “through the grapevine”, tipo “voci di corridoio”, che lei vuol tornare con quello prima, è una vera meraviglia, e nell’autunno del ’68 finalmente viene pubblicata. Numero uno in entrambe le classifiche, il singolo più venduto della storia della Motown negli anni Sessanta. È evidente che il boss e il cognato dalle uova d’oro non sono in sintonia.

Parallelamente, Gaye incide una serie di album con Tammi Terrell: sono la coppia perfetta del soul patinato ma irresistibilmente melodico, belli e solari, le loro due voci si completano a meraviglia e quando si guardano negli occhi la gente non può fare a meno di sognare. È un amore da palcoscenico, ma vissuto intensamente perché il loro rapporto è di amicizia assoluta. Anche con lei sono hit memorabili; in cima a tutti Ain’t no mountain high enough, 662 milioni di ascolti su Spotify per dare l’idea. Insomma alla fine degli anni Sessanta Marvin Gaye è una star del crossover, uno che arriva a tutte le platee, classe e charme da vendere, con quel sorriso/ghigno gaglioffo da bravo figlio che chissà cosa ti combina dietro, è un sex symbol nero, sta con una moglie bella e intelligente e potente, apparentemente ha tutto. Ma dietro la facciata si agita una tempesta perfetta, di sentimenti e di lavoro: «ero una marionetta nelle mani di Berry e Anna. Avevo una mia mente, e non la stavo usando».

Nel ’67 la prima scossa: Tammi ha un tumore al cervello, entra in un’agonia che si spegnerà solo tre anni dopo. Quando Tammi muore, privato della sua metà artistica, Marvin si ritira dalle scene, ci vorranno anni per rincominciare. Esce un suo album e nemmeno lo promuove. Sta a casa e prova a far carriera come giocatore di football, neanche male ma col rischio di rovinare una carriera musicale ben avviata. Piomba in depressione, una notte il suocero lo salva dal suicidio. In aggiunta, il rapporto con Anna sta andando in pezzi. In più la mitica Irs lo rincorre per centinaia di migliaia di dollari di tasse non pagate, e la cocaina non aiuta. È un mondo interiore in subbuglio ma anche fuori succede di tutto, nella black nation e non solo: Martin Luther King, le rivolte nei ghetti con decine di vittime, Watts, la sparatoria all’Università dell’Ohio, Kent State (la stessa di Ohio di Crosby, Stills, Nash & Young), con gli studenti assassinati, e sullo sfondo di tutto questo il Vietnam.

Nel momento di massima pressione, Marvin cambia tutto. Lascia indietro il passato, persino a livello personale, non più quei vestiti impeccabili ma felpa e sneakers, e anche un orecchino. Non è solo immagine, va verso una musica più libera, senza i troppi paletti della vecchia formula black pop: le canzoni sono in fondo jam languide, jazzate, i toni riflessivi piuttosto che battaglieri ti accolgono, ti seducono. Gaye non riflette solo sul Vietnam o la violenza nelle strade, tocca tema insoliti come l’ecologia, e riprendendo le sue radici religiose ripetutamente si appella a Dio, creando un mix sociale/spirituale personale, unico e pieno di anima. Cambia anche la maniera di cantare: «ho capito che cantavo a un volume troppo alto…». Ora il canto è più intimo, rilassato, e un giorno ha una grande intuizione: per sbaglio vengono mixate insieme le due tracce vocali incise di What’s going on, e quella doppia voce gli apre un mondo. Non è mai stato fatto prima, e lui lo espande in tutto l’album: registra diverse linee vocali, sulle tre frequenze che gli sono proprie: il suo falsetto, il suo morbidissimo medio-tenore e il suo cantato più ruvido (growl è la parola giusta, ma valla a tradurre), a seconda di quale messaggio vuole mandare; a volte sono lunghi intrecci, a volte solo contrappunti, ci sono anche parlati e dialoghi. Quando mixa tutto insieme, nella panoramica spaziale dello stereo le voci si aggiungono, entrano ed escono come presenze che si muovono, accompagnandolo e poi scomparendo. A volte solo per fare un passaggio, o un coro, altre volte – insieme ai molti “coristi” che compaiono sui crediti – parla, commenta, ricrea un’atmosfera più informale, più spontanea, meno patinata.

Quando What’s going on è pronta, per fargliela sentire vola fino a Los Angeles, dove Gordy ha spostato la Motown in cerca di una presenza più vicina al mondo di Hollywood e della cinematografia. L’accoglienza, si potrebbe dire, è la solita: «la cosa più brutta che io abbia mai sentito». Gordy vive un’ambizione di blackness da ricchi, slegato ormai dalla strada, non capisce il momento storico, ancora non ha la percezione che gli anni Sessanta si sono chiusi, vuole dirigere lui gli artisti come marionette, che è quello che ha fatto fin dall’inizio. Come è già successo, ne boccia l’uscita. Sembra che la vita di Gaye sia costellata di rifiuti e bocciature. A quel punto Marvin, indispettito e offeso, convinto della sua nuova strada, si ferma, se non esce quello lui non inciderà più, mette alla prova quella condotta padronale che nega agli artisti della scuderia qualsiasi uscita dal seminato. Invece di queste nuove canzoni, Gordy pubblica un suo Greatest Hits, sulla copertina un Gaye tutto muscoli vestito da Superman nero splendido splendente che salva una ragazza dal crollo di un traliccio. Ridicolo. Marvin attende sulla riva del fiume. «Le opinioni del reparto marketing non mi interessano», riporta David Ritz nella sua biografia, «quello che importa è il messaggio. Per la prima volta sentivo di avere qualcosa da dire». Quando il reparto vendite torna sotto disperato perché non ha più niente da pubblicare, e i tempi richiedono ameno un album e diversi singoli l’anno, arriva il momento. Siamo già nel 1971.

Quando il 45 arriva in cima alle classifiche, Gordy fa marcia indietro tutta e gli commissiona un 33; se riuscirà a finirlo in un mese, sarà libero di fare ciò che vuole con la sua musica. Gaye rientra in studio, e in dieci giorni incide tutto. C’è una prima versione del missaggio di tutto l’album, che uscirà solo nel quarantennale con titolo Detroit Mix, diversa da quella definitiva: molta più enfasi sulla batteria, sulle congas, con un finale parlato più lungo, e soprattutto i violini molto meno presenti. Marvin e il direttore d’orchestra David Van De Pitte rientrano in studio, e la grande differenza è negli archi, che diventano onnipresenti, avvolgono tutto il disco, lo rendono irresistibile, a prova di scetticismo. Meno roots, più pop, e l’impasto fra violini, percussioni, ritmica, cori, crea un wall of sound, un flusso ipnotico e caldo nel quale lasciarsi scivolare. È musica accessibile e di sostanza insieme, e nel suo intreccio fra socialità e divinità è come una lunga confessione a cuore aperto, coi brani che entrano uno nell’altro dando nessuna soluzione di continuità, unificando il tutto e rendendolo un lungo viaggio nella coscienza di un’anima travagliata. «What’s happening brother», continua il funk leggero della title track, violino e cori e una spruzzata di sax a dipingere il fondale dove Marvin, nella parte del fratello Frankie, fresco reduce del ’Nam, racconta com’è tornare dalla guerra nella giungla e inoltrarsi in quella della giungla urbana delle metropoli americane: «La guerra è un inferno, quando finirà? / Quando tornerà la gente a stare insieme? / Davvero le cose stanno migliorando come dice il giornale? / Cosa c’è di nuovo, amico mio? A parte quello che leggo / Non riesco a trovare lavoro / I soldi che girano sono sempre meno / Fratello, non riesco a capire cosa succede in questa terra…».

Un woo-ooo che ondeggia sulle congas che rimangono in coda introduce Flyin’ high (In the friendly sky), una preghiera su musica eterea per proteggersi dai pericoli e dalle ossessioni del mondo là fuori, prime fra tutte la dipendenza da eroina: «Lo so, sono ormai agganciato, amico mio, dal “ragazzo” [nome in slang dell’eroina] che rende schiavi gli uomini». Scivola a sua volta in quello che è forse il brano più emotivo dell’album, Save the children. Giri su giri di basso di Jamerson da antologia. Marvin lo apre con una domanda fra il disperato e il rassegnato: «Voglio solo fare una domanda / A chi importa veramente di salvare un mondo in rovina?». Poi continua a recitare il testo, a cui risponde cantando le stesse parole, salendo sempre di più: «Chi ha voglia di provarci / a salvare un mondo destinato a morire? / Quando guardo il mondo mi riempie di tristezza / I bambini di oggi soffriranno, domani / Che vergogna, una maniera così cattiva di vivere / Chi incolpare? / Non possiamo smettere di vivere / dobbiamo salvare la vita dei bambini…». E tutto fluisce in un’altra canzone, God is love: «… Dio è mio amico, Gesù è mio amico / Ci ama, che lo sappiamo o meno / E perdonerà i nostri peccati / Tutto quello che ci chiede è che ci scambiamo amore».

Ancora una volta, senza accorgersene, siamo dentro Mercy mercy me (The ecology), uno dei brani cardini del disco, col meraviglioso assolo di Wild Bill Moore. Per la prima volta in un disco black si parla di ecologia: «Abbiate pietà di me / Le cose non sono più quelle di una volta / Dove sono andati tutti i cieli blu? / È avvelenato il vento che soffia da Nord, e Sud, ed Est… / Gesù abbi pietà di me / Le cose non sono più come una volta / Radiazioni sottoterra e nel cielo / Animali e uccelli vicini che muoiono / E cosa dire di questa terra sovrappopolata / Quanti abusi dell’uomo può ancora sopportare?». Si chiude con un finale di archi cinematografico, e finalmente uno stacco, perché quello che arriva, Right on, è parecchio diverso, una jam di latin funk che potrebbero essere i War, o i Santana, un flauto a giocare leggiadro con i suoi vocalizzi, mentre congas e ritmica sotto marciano senza sosta. La penultima tappa del viaggio è Wholy Holy: «Dobbiamo credere uno nell’altro / Gesù se n’è andato tanto tempo fa / Ha lasciato un libro nel quale credere / e lì dentro abbiamo molto da imparare».

Questo diario di sentimenti profondi si chiude infine con un altro brano memorabile, Inner City Blues (Make me wanna holler), letteralmente un grido per tutto quello che avviene giù in città. Il funk qui sa di blues, gran basso di Babbitt, il piano jazzato che si muove sensuale: «Razzi, viaggi verso la Luna / Spendeteli per quelli che non hanno nulla / I soldi, li guadagniamo / ma prima di vederli ce li prendono / Mi fa venir voglia di urlare / quello che fanno alla mia vita / Questa non è una maniera di vivere… / Il crimine è in aumento / La polizia ha il grilletto facile / Il panico si diffonde, Dio solo sa dove stiamo andando…». Quando va a chiudersi, dopo una cavalcata piena di pulsazioni ritmiche, lo scat di Marvin che raddoppia sé stesso, tutto rallenta fino a fermarsi, il mood si fa rarefatto, e si finisce con lo stesso testo con cui si è cominciato: «Madre, madre / tutti pensano che abbiamo torto / Chi sono loro per giudicarci / solo perché portiamo i capelli lunghi?». Che suona strano, ma a parte le pettinature afro ci sono anche i capelli lunghi degli hippies, che Gaye guardava con favore: anche loro tentavano, in modo diverso, di cambiare la società.

Il ciclo a 33 giri è compiuto, senza usare toni e parole guerrigliere, la riflessione amara è però chiara, difficile allontanare lo sguardo. Gaye dimostra che si può lasciare il segno anche senza fare l’attivista o il capopopolo, facendo un album onesto e spirituale, nella tradizione e oltre la tradizione allo stesso tempo. Due anni dopo bisserà l’enorme successo con Let’s get it on, dedicherà due album alla tempestosa storia con Anna, Trouble man e Here, my dear, si risposerà e avrà due figli, e nell’82 con Sexual healing, batteria elettronica e solita voce sexy sopra, ritornerà in auge. Ma nel 1984, dopo un alterco, suo padre tirerà fuori la pistola e finirà di colpo la vita di un gigante del soul. «Padre, padre / non dobbiamo alzare ancora la tensione / Vedi, la guerra non è la risposta». Ricordate? Suoneranno come un presagio da cui non è riuscito a scappare. Come se l’avesse sempre saputo, che «solo l’amore può conquistare l’odio».