“Loro” e il realismo horror afroamericano

di Mario Aloi (esquire.com, 14 agosto 2021)

Secondo il critico britannico Robin Wood, il reale soggetto del genere horror sarebbe la lotta per il riconoscimento di tutto quello che la nostra civiltà cerca di reprimere e poi in seconda battuta opprimere. Stephen King, un altro esperto in materia, ha paragonato il racconto dell’orrore all’incisione di un bubbone, attraverso la quale proviamo a far defluire elementi negativi e conflittuali. In questo senso non è forse un caso che i primi grandi horror americani degli anni Trenta fossero per lo più ambientati all’estero, quasi il Paese non si sentisse ancora pronto a praticare l’incisione e confrontarsi con il proprio sottobosco.

Amazon Prime Video

Il dottor Miracolo, Frankenstein, Dracula: i mostri erano sempre europei – oppure al limite provenienti da qualche isola sperduta ed esotica, come nel caso di King Kong. Gradualmente poi i film si sono spostati al cuore della società americana, allargando passo passo il nucleo sociale d’ambientazione: dalla famiglia (Psyco, all’inizio degli anni Sessanta), a questioni più legate al conflitto di classe (Non aprite quella porta, Zombi). Solo negli ultimi anni però gli Stati Uniti sembrano arrivati ad approcciare le proprie contraddizioni fondative, andando a toccare quelli che sempre King chiamerebbe punti di pressione fobica nazionale. La recente affermazione del black horror non si spiega altrimenti. Sempre più afroamericani scrivono e dirigono film dell’orrore, sempre più afroamericani sono al centro non solo della scena, ma proprio del nucleo narrativo e allegorico degli ultimi esemplari del genere. Scappa – Get Out, Noi, Ma, Lovecraft Country – La terra dei demoni, Loro – per citare solo alcuni dei titoli di maggiore successo.

E proprio Loro, serie prodotta da Amazon e resa disponibile nella sua versione italiana alla fine di luglio, crea un interessante cortocircuito tra genere cinematografico e realtà storica che porta in primo piano una lunga lista di problemi irrisolti che caratterizzano oggi come ieri la società e l’attualità statunitensi. La serie racconta le vicissitudini di una famiglia afroamericana che all’inizio degli anni Cinquanta si trasferisce dal North Carolina a East Compton, sobborgo di Los Angeles allora interamente bianco. Ai locali l’uniformità cromatica e razziale del loro quartiere non dispiace affatto, anzi, e quindi cercano di convincere i nuovi arrivati a levare il disturbo prima con le cattive, poi con le cattivissime. Loro mette in scena dieci giorni di violenze pubbliche e private sempre più efferate, che corrompono fino al midollo ogni singolo personaggio in scena, sia esso bianco o nero, oppresso o oppressore. Fuor di metafora, la nazione nel suo complesso.

Sebbene gli autori ricorrano a tutti i topoi del genere – dalla casa infestata al viaggio in macchina iniziale stile Shining o Funny Games –, la serie ha però un evidente carattere storico. A livello di plot, infatti, gli autori s’inventano pochissimo. La storia degli Emory è quella di tante famiglie afroamericane a metà del secolo e anche il livello di violenza, a tratti davvero estremo, è probabilmente inferiore a quanto accadeva – e in molte occasioni ancora accade – in realtà. Ed è proprio nell’assenza di dislivello tra i due strati narrativi che la serie dà il meglio di sé. L’horror infatti è sempre più o meno allegorico, mentre in Loro il confine tra realtà e simbolo salta quasi completamente. Così facendo la storia perde forse in sottigliezza, ma guadagna un livello di senso. Laddove lo spettatore è messo a disagio dalla consapevolezza che la violenza sullo schermo non è una rappresentazione che sta per qualcos’altro, bensì un oggetto reale in sé. Un fatto storico. E non nel senso di semplice storia vera, ma in quello di autentico rimosso collettivo.

Il mito della segregazione de facto

Uno dei grandi miti della Storia americana tramanda come la segregazione delle maggiori metropoli statunitensi sia stata il prodotto di pregiudizi individuali, disuguaglianze economiche, o tutt’al più dell’iniziativa d’istituzioni private come banche o agenzie immobiliari. Una segregazione de facto, insomma. Quest’idea però è falsa. La segregazione delle città americane fu infatti promossa dalle autorità pubbliche a diversi livelli, partendo dagli enti locali fino alle agenzie federali. Non fu segregazione de facto, ma de jure. Per legge. Il background della serie Loro sta tutto in questa storia. Una storia che ha tre passaggi fondamentali.

Per prima cosa, all’inizio degli anni Dieci, nel tentativo di creare quartieri uniformi dal punto di vista razziale, molte città cominciarono a promulgare ordinanze che proibivano ai neri di comprare casa in quartieri a maggioranza bianca, e viceversa ai bianchi di trasferirsi in aree abitate per lo più da neri. Le chiamavano racial zoning rules. Poi, negli anni Trenta, si unì il governo federale. A partire dal 1933 l’amministrazione Roosevelt creò prima la Home Owners Loan Corporation, perché riscattasse i mutui di tutte quelle persone che non erano più in grado di pagare durante la Grande Depressione, e poi la Federal Housing Administration, perché finanziasse l’acquisto di più prime case possibile per la classe media. Entrambi questi organismi incoraggiavano la segregazione non per vie indirette, ma proprio per statuto.

La Holc creò delle mappe del rischio per i prestiti che dividevano le aree metropolitane in zone più sicure, colorate in verde, e zone meno sicure, colorate in rosso. Le zone rosse – da cui l’ormai tristemente famoso termine redlining – non erano necessariamente caratterizzate da redditi più bassi, ma dalla semplice presenza di afroamericani. La Fha, invece, inserì addirittura l’essere bianchi tra i requisiti per ottenere un finanziamento pubblico per il proprio mutuo. La segregazione diventava, quindi, politica esplicita del governo federale. Il terzo pilastro è, invece, di carattere almeno inizialmente privato e fa da sottofondo a tutti i movimenti dei vari enti pubblici. Ancora prima degli anni Venti, in parecchi contratti immobiliari esistevano clausole che proibivano future vendite ad afroamericani. Spesso queste clausole prendevano addirittura la forma di accordi collettivi: patti tra gli abitanti di uno stesso quartiere affinché nessuno cedesse a nuovi proprietari non bianchi.

Il risultato della combinazione di questi tre fattori fu la quasi completa segregazione del Paese. L’idea a lungo termine, i cui risultati sono visibili ancora oggi, era spingere più famiglie bianche possibile a trasferirsi dalle aree urbane a quelle suburbane, proprio attraverso l’elargizione di mutui a finanziamento pubblico preclusi alla popolazione afroamericana, orientando al contempo i fondi solo verso certe zone specifiche. E nemmeno solo i fondi pubblici. La Fha infatti scoraggiò anche le banche private dal concedere qualunque forma di prestito per abitazioni urbane, spingendo invece gli investimenti nei suburbs di nuova costruzione. Nel 1948 però la Corte Suprema dichiarò le clausole restrittive sostanzialmente nulle, con la storica sentenza Shelley v. Kraemer. Questa svolta generò un immediato incremento del numero di famiglie afroamericane più o meno agiate che cominciarono a trasferirsi in aree suburbane interamente abitate da bianchi.

E questo a sua volta provocò due importanti conseguenze, entrambe ritratte nella serie di Amazon. La prima fu un’impennata del livello di violenza diretta a queste famiglie da parte delle popolazioni locali, che poi è il soggetto principale di Loro. La seconda sono i cosiddetti white flight, anch’essi tra i temi della serie, anche se più sullo sfondo. In pratica, quando realizzavano che fermare la progressiva desegregazione del proprio quartiere stava diventando impossibile, gli abitanti bianchi vendevano e si trasferivano in zone sempre più periferiche e ancora del tutto segregate. Sintetizzando all’estremo, si dicevano: se il quartiere non può essere tutto bianco, allora che non lo sia per niente. Questa è grosso modo la storia del sobborgo al centro di Loro, East Compton, che oggi è a maggioranza latina – o anche di West Compton, spesso citato lungo i dieci episodi del racconto, che già all’epoca dei fatti era passato dall’essere interamente bianco a una popolazione per lo più composta da afroamericani.

Trauma

La nuova età dell’oro del black horror ha, ovviamente, parecchio a che fare con l’estrema attualità ed esposizione delle violenze subite dalle comunità nere. I video che le ritraggono sono ormai una tale consuetudine da aver creato una sorta d’immaginario collettivo per cui il passaggio ai codici dell’horror sembra quasi inevitabile, considerato che quei video sono già di per sé dei piccoli film dell’orrore. Little Marvin, autore di Loro, cita proprio questi filmati come punto di partenza del suo iter creativo. “Ho iniziato a scrivere la serie tre estati fa”, spiega in uno dei tanti making of promozionali. “In un periodo in cui pensavo che non avrei mai smesso di svegliarmi e vedere immagini riprese da cellulari di afroamericani – uomini, donne, bambini, famiglie – che venivano terrorizzati in ogni modo. […] Volevo esplorare quel terrore. E dare al pubblico un’idea di cosa significhi vivere in un clima del genere ventiquattro ore al giorno, sette giorni la settimana”.

E proprio la questione relativa alla necessità di mostrare le violenze per evitare che si ripetano o per sensibilizzare un certo pubblico è finita al centro della discussione critica sulla serie. Anche qui, peraltro, creando un’interessante intersezione tra uno dei dibattiti tradizionali intorno al genere horror e una discussione che invece si sta facendo strada negli ultimi anni circa la funzione dei video di denuncia delle violenze. Una questione che, semplificando parecchio, potremmo riassumere così: quanta violenza è lecito mostrare? Per quanto riguarda l’annoso dibattito sui film horror, il problema è sempre stato declinato secondo due canoni principali. Primo: se sia opportuno o meno mostrare la violenza in sé, spingendo la rappresentazione della stessa all’estremo, nel tentativo di avvicinarsi il più possibile alle soglie di tolleranza del pubblico, o addirittura oltrepassandole. Secondo: l’idea che questi film, deumanizzando la stessa violenza, possano creare in certi gruppi di spettatori un impulso a emulare i protagonisti sullo schermo. Entrambi questi punti guadagnano almeno un paio di livelli di senso quando – come nel caso di Loro – vengono sovrapposti alla questione razziale.

Se da una parte è infatti innegabile il valore di denuncia dei video o dei film che ritraggono o rappresentano le violenze perpetrate ai danni della popolazione afroamericana, è anche vero che la riproposizione seriale delle stesse rischia di amplificarne la portata traumatica sia per le vittime sia per le comunità cui appartengono. Anche perché si tratta, ovviamente, di video e di film che saranno guardati con occhi molto diversi dal pubblico bianco e da quello nero. Nello specifico dei nuovi film black horror, al pubblico afroamericano viene imposta la riproduzione seriale del proprio trauma, ma viene al contempo proposto una sorta di riscatto, con i personaggi neri finalmente al centro della dinamica di genere e non relegati a ruoli macchiettistici o comunque sempre marginali (quando non apertamente razzisti). Dal canto suo, invece, lo spettatore bianco – che a tratti sembra essere il vero target di queste produzioni – è preso in mezzo a un doppio livello d’immedesimazione: da un lato non può che solidarizzare con le vittime della storia, gli Emory, dall’altro però è evidente come il colore della sua pelle lo costringa a chiedersi se per una volta il mostro al centro della storia non sia proprio lui.

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