L’Ucraina ha vinto l’Eurovision Song Contest, datevi pace

di Manginobrioches (huffingtonpost.it, 15 maggio 2022)

Piccolo vademecum per rispondere a chi da ieri notte obietta che però all’Eurovision Song Contest l’Ucraina non meritava di vincere, signora mia. 1) Quelli che: ennò, scusate, che c’entra la musica con la politica? Allora così è facile, si sapeva già, che hanno fatto a fare la gara? Anzitutto non è la Champions ma uno spettacolo canoro, il cui scopo non è assegnare una coppa ma condividere la musica e il clima in cui si dovrebbe svolgere questa come qualsiasi iniziativa umana: una festa, più che una gara. Inoltre, sommessamente, sarebbe il caso di aggiungere che, accidenti sì se la musica è politica. Lo ha detto giusto John Lennon in apertura di serata, cantato da cento bocche, risuonato in milioni di case: Give peace a chance. Non è uno slogan, è un canto, ovvero uno slogan che ce l’ha fatta a diventare bellezza, a entrarti dentro, a smuovere emozione e ragione (e infatti è stato scritto nel 1969, e ancora lo cantiamo e ci convince, e ci piace, e ci muove).

Esistono altri motivi per cantare tutti assieme, magari in mondovisione? E se cantare volesse dire cantargliele, a chi sta distruggendo i teatri e le sale da concerto e le scuole (ieri un reportage de La7 mostrava una scuola distrutta, e un reporter che suonava una pianola sfondata, in un angolo), e uccidendo la gente che andava a cantare, a suonare, ad ascoltare, a imparare, perché deve perseguire la sua santa guerra criminale? E se il voto di milioni di persone (è stato il televoto a fare vincere la Kalush Orchestra, che il voto della “giuria di qualità” non aveva premiato) volesse dire: sì, siamo dalla parte di chi canta e suona assieme, non di chi si fa la guerra, ve la sentite di dire che ha vinto l’Ucraina, e non la pace? C’è vittoria migliore, e più collettiva di questa? C’è qualcuno che ha perso, così?

2) Quelli che: eh, ma Zelensky ha fatto un appello, sai quanti ucraini ci sono fuori dall’Ucraina che hanno potuto votare? Con la domanda accessoria: ma vi sembra serio un presidente che si occupa di canzoni? Beh, anzitutto compratevi un pallottoliere: pur essendo al centro della più grande ondata di profughi in brevissimo tempo (né turisti né Erasmus; purtroppo fuggono dalla guerra, e magari i versi “troverò sempre la strada di casa anche se le strade sono distrutte” dicono loro qualcosa), gli ucraini da soli non bastano no. Ma qualche professore magari domani accuserà gli ucraini di essere troppi, come di opporre troppa resistenza alle bombe pacificatrici di Putin. Sempre lì a provocare, accidenti a loro e alla loro voglia di sopravvivere (non solo fisicamente, ma come popolo e Paese. Accidenti, di nuovo quei maledetti simboli). Poi, Zelensky – o come lo chiamano, con ingiustificato disprezzo, “l’attore” – lo sta facendo dal primo momento: la guerra (di difesa) simbolica, delle parole, della voce, della presenza. E un presidente che si occupa di simboli prima che di proiettili è quantomeno da stimare.

3) Quelli che: la canzone è brutta! Qui, in effetti, l’unica risposta possibile sarebbe un termine squisitamente tecnico: sticazzi. Perché entriamo nel vastissimo e inesplorato territorio del gusto, e disgusto, dove nulla è certo e tutto è attaccabile o difendibile con solidi argomenti. Tipo le canzoni già sentite tanto da essere irriconoscibili, leggi Spagna per il ritmo e una mezza dozzina di altri, Australia, Azerbaijan, Polonia, Svizzera etc. etc., giù giù, o su su, fino al Regno Unito, per la ballad pop più immortale dei fiori di plastica; gli exploit dissacranti che per uno che entusiasmano c’è uno che sconcertano, leggi i lupi gialli norvegesi; i fusion-confusion della serie “vale tutto ma ci divertiamo un sacco”, e il pubblico pure, leggi il rockabilly balcanico dei moldavoni o anche il country islandese delle Systur; le performance d’autore che danno le coliche a Malgioglio, leggi il raffinato, forse troppo, “corpore sano” della Serbia; e poi il bretone, il rap-folk, “la new wave italiana e il freejazzpunk inglese” (cit.). Insomma, il bello dell’Eurovision è esattamente questo: la mescolanza, la compresenza di tonalità, lingue, stili, musiche vecchie nuove e rivisitate o reinventate o annichilite e parodiate. E dove c’è un po’ di brutto, un po’ di bello, un bel po’ di diversamente bello. E Stefania, col suo testo drammatico e il suo rap mescolato col folk, non è niente male: insomma, sul piano musicale i Kalush non hanno rubato proprio nulla.

Quindi, datevi pace. Date al mondo una possibilità di pace. Lo cantava John Lennon.

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