Nick Cave e gli altri: quando il politically correct è «la più infelice delle religioni»

di Adalgisa Marrocco (huffingtonpost.it, 17 gennaio 2021)

«La cancel culture è la distruzione dell’anima creativa, il politically correct è diventato la più infelice religione del mondo». A sostenerlo è Nick Cave che, con composta eleganza, sulle pagine del britannico Spectator sottolinea quanto possa essere «asfissiante per la società» quell’atteggiamento di colpevolizzazione e privazione di sostegno e gradimento, sovente espresso tramite i social media, nei riguardi di personaggi pubblici, aziende o prodotti culturali ritenuti portatori di un messaggio offensivo o politicamente scorretto. Il cantautore australiano è, in ordine di tempo, l’ultima delle celebrità che hanno palesato dissenso per una tendenza che rischia di trasformare la società in «inflessibile, paurosa, vendicativa e priva di senso dell’umorismo», sottolinea lui.

Getty / Harper’s Magazine
Getty / Harper’s Magazine

A fare notizia negli scorsi mesi, infatti, fu una lettera aperta di 150 scrittori, personalità e intellettuali pubblicata nel luglio del 2020 su Harper’s Magazine. Tra i firmatari nomi del calibro di Margaret Atwood, Ian Baruma, Noam Chomsky, Salman Rushdie e J.K. Rowling: compatti nel denunciare l’intolleranza culturale e nel difendere la libertà di pensiero e parola. Un documento giunto nelle settimane successive alle proteste anti-razziste per l’assassinio dell’afroamericano George W. Floyd, che aveva scatenato un’onda emotiva di cancellazione del passato scomodo e di iconoclastia (si ricorderanno, per esempio, i tentativi di rimuovere o abbattere statue o monumenti considerati simboli della schiavitù o dei regimi coloniali, non solo in Usa ma anche in Gran Bretagna e nel resto del mondo, N.d.R.).

Nella lettera, il gruppo di intellettuali celebrava «le richieste più ampie di maggiore uguaglianza e inclusione nella società» scaturite dalle proteste per la giustizia razziale, sottolineando però come insieme a queste si fosse «intensificata una nuova serie di atteggiamenti morali e impegni politici che tendono a indebolire le nostre norme di dibattito aperto e tolleranza delle differenze a favore del conformismo ideologico». Una deriva, quest’ultima, che gli intellettuali avevano respinto rifiutando dogmi, censura e coercizione: «Le forze illiberali stanno guadagnando forza nel mondo, e hanno un potente alleato in Donald Trump che rappresenta una vera minaccia alla democrazia. L’inclusione democratica che vogliamo può essere raggiunta solo se facciamo sentire la nostra voce contro il clima intollerante che ha preso piede in tutte le parti», si leggeva.

«Il libero scambio di informazioni e idee, linfa vitale di una società liberale, sta diventando sempre più limitato», proseguiva la lettera aperta. «Mentre ci aspettiamo questo dalla destra radicale, la censura si sta diffondendo ampiamente anche nella nostra cultura», aggiungeva, puntando il dito contro le «richieste di punizioni rapide e severe in risposta a trasgressioni percepite come tali del linguaggio e del pensiero». Tanti gli esempi di scrittori, editori e giornalisti allontanati da istituzioni e realtà lavorative per le loro opinioni: «Qualunque siano le argomentazioni su ogni particolare caso, il risultato è stato quello di restringere costantemente i confini di ciò che si può dire senza la minaccia di rappresaglia». «Rifiutiamo ogni falsa scelta tra giustizia e libertà, che non possono esistere una senza l’altra. Come scrittori abbiamo bisogno di una cultura che ci lascia spazio per la sperimentazione, il prendersi rischi e anche il fare errori. Dobbiamo preservare la possibilità di un disaccordo in buona fede», incalzava l’appello dei 150, che non è rimasto isolato.

Il richiamo al dibattito aperto e alla tolleranza delle differenze pare oggi risuonare nelle parole di Nick Cave, secondo il quale «la cancel culture è l’antitesi della compassione. Il rispettabile obiettivo iniziale del politicamente corretto, ossia di ripensare la nostra società in una forma più equa, incarna oggi tutti i peggiori aspetti che una religione possa offrire: la presunta certezza morale e l’ipocrisia privano anche della capacità di redenzione». La compassione («mercy»), suggerisce il cantautore, «ci consente di impegnarci apertamente in una conversazione libera – un’espansione della scoperta collettiva verso un bene comune. Se la compassione è la nostra guida, abbiamo a disposizione una rete di sicurezza, di reciproca considerazione e possiamo, per citare Oscar Wilde, “giocare con grazia con le idee”». Queste le riflessioni contenute nel testo riproposto dallo Spectator e originariamente diffuso attraverso la newsletter The Red Hand Files, in cui Cave, oltre ad affrontare temi prettamente musicali, risponde alle domande degli ammiratori e parla di sé stesso e del mondo.

A fare eco all’artista australiano, negli scorsi giorni, le parole di un altro volto noto: l’attore britannico Rowan Atkinson, creatore e interprete di Mr. Bean, che in una recente intervista a Radio Times ha affermato che la cancel culture è paragonabile alla «folla che nel Medioevo andava in cerca di gente da mettere al rogo». «Il problema che abbiamo online è che un algoritmo decide ciò che vogliamo vedere, il che finisce per creare una visione semplicistica e binaria della società. Diventa una sorta di: “o sei con noi o sei contro di noi. E se sei contro di noi, meriti di essere cancellato”», ha proseguito Atkinson. L’attore ha aggiunto: «È importante ascoltare un ampio spettro di opinioni, ma quello che abbiamo ora è l’equivalente digitale della folla medievale che si aggirava per le strade in cerca di qualcuno da bruciare. È spaventoso per chiunque ne rimanga vittima e mi riempie di paura per il futuro».

La lista di personalità che si sono esposte criticando la deriva del politicamente corretto e della cancel culture è lunga. Ricordiamo Ricky Gervais, comico e attore inglese, presentatore dissacrante di cinque cerimonie dei Golden Globe, che ha recentemente affermato: «Se sei tu che spegni la tv non è censura. Se sei tu che cerchi di far spegnere la tv agli altri, perché non ti piace qualcosa di ciò che stanno guardando, allora il discorso è differente. Non si dovrebbe andare a processo per aver detto una battuta che qualcuno non ha gradito». «Se non sei d’accordo con il diritto delle persone a dire qualcosa con cui non ti trovi d’accordo, allora non sei d’accordo con la libertà di parola», la chiosa di Gervais.

E se abbiamo ricordato la lettera pubblicata da 150 scrittori e intellettuali su Harper’s Magazine, impossibile non citare la riflessione di Bret Easton Ellis. Nel 2019 l’autore statunitense ha dato alle stampe White (pubblicato in Italia col titolo Bianco per i tipi Einaudi, N.d.R.), che, tra autobiografia e critica sociale, si scaglia contro il politicamente corretto e il «problema crescente della nostra società», ossia «l’incapacità delle persone di tollerare nella propria mente due pensieri contrastanti». Insomma, citando ancora la raffinata riflessione di Nick Cave: «Siamo una cultura in transizione, ed è possibile che si stia andando verso una società più equa… Ma a quali valori essenziali rinunceremo in questo processo?». Il pensiero del coro potrebbe trovare sintesi in questo interrogativo.