Una docuserie su Apple Tv+ torna a raccontare l’assassinio di John Lennon

di Roberto Brunelli (hollywoodreporter.it, 11 dicembre 2023)

C’erano tutti, c’erano le candele, c’era la commozione, c’era il bisogno di esserci, c’era il rimpianto, c’era la speranza. Molti si tenevano per mano, si passavano le foto di John. E cantavano. Era l’8 dicembre, ma non quello del 1980. Non era neanche uno dei giorni successivi, quando a decine di migliaia si ritrovarono al Central Park – il punto esatto oggi è conosciuto come Strawberry Fields – per piangere insieme l’addio a John Lennon. Che era stato ammazzato a pochi metri di distanza, all’ingresso di casa sua, il Dakota Building a Manhattan.

72 Films

Era pochi giorni fa: l’8 dicembre 2023. Cantavano Now and Then, l’ultima vera canzone dei Beatles. Quella di cui si dice sia una “lettera d’amore” di John per Paul, una canzone che, per quanto appena pubblicata grazie al gioco un tempo impossibile dei vivi che suonano con i morti (with a little help from the I.A., dicono, ma non è vero), è già diventata un classico, una di quei piccoli miracoli capaci di connettere l’oggi con il passato. Qualcuno aveva portato le chitarre, un basso e persino una batteria, e si erano messi a suonare, lì al freddo di New York, e sembravano emozionati come allora, quarantatré anni fa, quando cinque colpi di pistola avevano ucciso John Lennon da una manciata di ore.

Ebbene sì, fa impressione vedere quanto oggi sia ancora potente l’impatto di quella morte, che colpì al cuore non solo una generazione, non solo una rivoluzione musicale – quella dei Beatles, quella degli anni Sessanta, quella del rock’n’roll, quella dei cuori e delle anime, quella delle utopie – ma anche un modo di vedere il mondo, di vivere il mondo. Oggi c’è una docuserie a raccontare quella morte, sta su Apple Tv+. È John Lennon: Murder Without A Trial, diretta da Nick Holt e Rob Coldstream e prodotta da 72 Films, dove l’assassinio del più amato e più “politico” dei Beatles viene trattato un po’ come un true crime, come se Lennon fosse Kennedy e Mark David Chapman – il nowhere man che l’uccise con una copia de Il giovane Holden di Salinger in mano – fosse Lee Harvey Oswald.

Per certi versi non è un’associazione bizzarra: i due omicidi, così come quello di Martin Luther King e di Robert Kennedy, fanno parte della teoria delle lunghe ombre che si sono stese nei decenni sulla storia degli Stati Uniti, così come non molto tempo dopo gli spari nell’androne del Dakota è un’ombra tutta americana il tentato omicidio del presidente Ronald Reagan per mano di un tizio che pure conservava gelosamente Il giovane Holden tra i suoi libri più cari. In un certo senso, sia pur non detto in maniera esplicita, è questa la tesi di fondo di John Lennon: Murder Without A Trial. Ma è una strada che la miniserie non percorre fino in fondo.

In compenso il documentario offre una notevolissima raccolta di testimonianze di persone che c’erano, lì al Dakota, quando caddero quei cinque colpi di pistola, così come di quelli che c’erano subito prima e subito dopo: un tassista che vide gli spari esplodere davanti ai suoi occhi, il concierge che ancora oggi piange nel ricordare di come tenne la testa del moribondo John tra le sue mani, il portiere del Dakota, un altro tassista che aveva preso a bordo Mark Chapman il quale gli disse che era stato con i Rolling Stones e che i Beatles si sarebbero riuniti, i primi poliziotti accorsi sul luogo del delitto, le infermiere del Roosevelt Hospital e i medici che tentarono l’impossibile per salvare la vita a quell’uomo che con le canzoni e con le sue opinioni aveva cambiato, forse salvato, la vita a milioni di persone.

E c’è anche il racconto della musica che uscì proprio nel momento dalla filodiffusione dell’ospedale, ed era Imagine (lo racconta una delle infermiere, altri parlano di una radio che mandava All My Loving), c’era l’incredulità del dottore che non riusciva a credere che quell’uomo che stava morendo tra le sue mani fosse davvero John Lennon. Non solo. In seguito sentiamo uno degli avvocati della difesa nonché il capo procuratore, che a tutt’oggi hanno punti di vista opposti su un tema cruciale: Chapman era pazzo oppure no, quando uccise John Lennon? Era completamente folle, e dunque avrebbe dovuto essere ricoverato in una struttura psichiatrica, oppure è stato giusto – come poi avvenne e come tutt’ora è – che Chapman finisse dietro le sbarre forse a vita?

Ma è davvero questa, vien da chiedersi, la cosa importante? È vero che l’assassino era ossessionato dal capolavoro di Salinger, è vero che s’immaginava di essere Holden Caulfield, è vero che nutriva una sorta di folle rancore verso John Lennon, dato che secondo lui c’era uno squarcio troppo grande tra la verità dell’utopista Lennon e la verità della superstar Lennon. E forse è vero che Chapman sognava d’essere qualcun altro perché angosciato dalla propria mediocrità, che poi sarebbe il motivo per cui era arrivato a sposare una donna di origini asiatiche, come Lennon aveva sposato la giapponese Yoko Ono.

E però no, non è questo l’elemento decisivo della storia dell’omicidio Lennon. La docuserie affronta solo fuggevolmente come John fosse stato letteralmente perseguitato dall’Fbi e in particolare l’amministrazione di Richard Nixon lo considerasse un pericolo pubblico. Era una sorta di paranoia – non la prima delle paranoie del potere americano – per gli agenti del Bureau, che avevano tonnellate di dossier su Lennon. C’è un audio di John che parla esplicitamente delle intercettazioni telefoniche cui veniva sottoposto, e probabilmente la vera e propria persecuzione di cui fu vittima (per il suo pacifismo, per le marce alle quali aveva partecipato, per la sua Imagine considerata una canzone sovversiva, per l’influenza che esercitava su milioni di persone). È una, e non l’ultima, delle cause per cui Lennon era scomparso per cinque lunghi anni dall’occhio pubblico.

Era stata una lotta impari quella con il governo degli Stati Uniti e con l’Fbi – gli avevano negato il passaporto, l’avevano espulso e poi riammesso, aveva fior fiori di agenti segreti alle calcagna, lui aveva sempre reagito con coraggio e determinazione –, una lotta che non poteva non aver lasciato delle cicatrici. Sì, anche per questo si era rintanato al Dakota con Yoko a fare il papà a tempo pieno per Sean. Ma improvvisamente, proprio nel 1980, accade un miracolo: la resurrezione musicale e personale. «Ero alle Bermuda a fare un bagno in mare insieme a mio figlio Sean. Di colpo, mentre ero lì in acqua hanno cominciato a venirmi in mente delle melodie», ebbe a raccontare lui stesso. Ci era andato, alle Bermuda, a causa di un oracolo africano, e lì – si dice – sopravvisse a un tremendo uragano.

Tornato a New York, John andò in sala di registrazione per non uscirne quasi mai. Double Fantasy venne pubblicato neanche tre settimane prima delle pistolettate di Chapman: ancora oggi è un classico imprescindibile, forse al pari dei più classici degli album dei Beatles. Era quasi una febbre quella che lo portò a sfornare le nuove canzoni. Pezzi come Watching the Wheels, Woman e soprattutto l’incredibile Just Like Starting Over: il verso «sarà come ricominciare daccapo» sembra un beffardo paradosso del destino, oppure una verità ancora più profonda. Poi, a tradimento, arriva l’8 dicembre.

Era una bella giornata per John. Concesse una lunga intervista (di cui nel film si sentono alcuni passaggi molto belli), era contento delle ultime ore passate a registrare musica. «L’ultima volta che vidi John aveva quel suo incredibile sorriso sulla faccia», ripete ogni volta il produttore Jack Douglas. L’ultima canzone a cui aveva lavorato era Walking on Ice. «Era elettrizzato, e lo era anche Yoko, perché noi tutti sapevamo di aver fatto un buon lavoro sulla canzone. Lo accompagnai fino all’ascensore e lo salutai augurandogli la buonanotte. Circa quaranta minuti dopo la mia ragazza mi raggiunse allo studio, pallidissima. L’hanno appena detto alla radio, disse. Hanno sparato a John».

Sul perché di questa morte i dubbi sono infiniti. Ma sul fatto che quest’assassinio abbia scolpito nel marmo quanto sia stato e rimanga cruciale per l’identità di milioni di persone la figura di John Lennon e il passaggio dei Beatles sulla crosta terrestre non ci sono dubbi. Oggi e quarantatré anni fa quel che rimane sono le immagini delle decine di migliaia di persone assiepate a Central Park e in altre decine di città del mondo a cantare le sue canzoni, a scandire «all we are saying, is give peace a chance». Immagini destinate a finire negli album fotografici del Novecento, accanto all’attentato di Sarajevo che apre la via alla Prima guerra mondiale, a Hitler e gli orrori del Terzo Reich, al ritratto di Einstein, alla bomba atomica di Hiroshima, all’uccisione di Jfk a Dallas, al primo uomo sulla Luna, alla caduta del Muro di Berlino.

Cinque colpi di pistola, con Il giovane Holden in mano: alle 22:51 Chapman si era avvicinato a John per dire la frase che si era tenuto dentro da chissà quanto tempo: «Ehi, mister Lennon, sta per entrare nella storia». John si accasciò. Il portiere del Dakota, lo coprì con la sua giacca, levandogli gli occhiali sporchi di sangue. Chapman rimase sulla scena del crimine. Contrariamente a Lee Harvey Oswald – che dopo aver sparato a John Fitzgerald Kennedy si era rintanato in un cinema – l’assassino di Lennon non si mosse, come ipnotizzato.

Pochi giorni dopo, il 14 dicembre, furono in milioni a rispondere all’appello lanciato da Yoko Ono di rimanere in silenzio in onore dell’uomo che aveva offerto al mondo Imagine. «Dici che sono un sognatore, ma non solo l’unico. Spero che un giorno ci raggiungerai», aveva cantato Lennon. Ora la cantavano tutti, ai quattro angoli del globo. E oggi la cantano ancora, insieme a Give Peace a Chance e a Now and Then, miracolo del tempo senza tempo, di una rivoluzione dei suoni e dei cuori che è molto più forte della legge del sangue.