Norman Hartnell, il sarto della regina Elisabetta

di Giorgia Olivieri (vanityfair.it, 23 aprile 2023)

È passato alla storia come il couturier della regina Elisabetta II, ma Norman Hartnell, se è possibile, è stato molto di più di un semplice sarto di corte. Esattamente cento anni fa lo stilista britannico iniziava la sua carriera. Come lui stesso scrive in Silver and Gold, la deliziosa autobiografia pubblicata nel 1955: «Era il giorno di San Giorgio, il 23 aprile 1923». San Giorgio è il patrono d’Inghilterra, un martire che riuscì a sconfiggere il drago compiendo un grande atto di coraggio.

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Una data quindi tutt’altro che casuale, scelta da chi da quel momento in avanti avrebbe tenuto alta la bandiera della moda della madrepatria fino ad allora poco considerata dal momento che veniva preferita quella delle grandi sartorie parigine. Il suo nome non sarà noto come quello di Christian Dior, suo contemporaneo, ma è legato a un unicum nella storia del costume reale. Hartnell ha infatti disegnato per Elisabetta II l’abito da sposa prima e dell’incoronazione poi. Ma non solo: c’è la sua firma sul vestito nuziale della principessa Margaret e di Beatrice di York. La nipote della sovrana scomparsa a settembre del 2022 ha riportato in auge un vecchio modello appartenuto alla nonna. Si trattò di una scelta sorprendente per un matrimonio sui generis, dal momento che fu annunciato a celebrazione avvenuta per via dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

Sir Norman Hartnell nacque il 12 giugno 1901 al piano superiore di un pub a Streatham, un quartiere nella zona Sud-Ovest di Londra. Il proprietario del locale, chiamato The Crown and Sceptre, era il padre Henry Bishop Hartnell, detto Bish, un oste divenuto successivamente grossista di alcolici. Il piccolo Norman, piuttosto malaticcio, cominciò lì a coltivare la passione per il disegno grazie a una scatola di pastelli. Sua madre, che lo sostenne sempre, diventerà per lui fonte d’ispirazione, mentre il padre mostrò disinteresse per la propensione all’arte del figlio. Nonostante questo, fu lui a finanziare il primo anno di affitto dei locali che ospitarono la prima sede della casa di moda. Norman Hartnell non parlerà mai troppo delle sue origini piuttosto umili, probabilmente per accreditarsi nei circuiti aristocratici assai classisti. Amicizie che tuttavia fu in grado di costruirsi a Cambridge, dove si iscrisse per studiare Lingue. I libri però per lui non erano una priorità, soprattutto dopo che conobbe la magia del teatro. Diventò un punto di riferimento del Footlights Dramatic Club, la compagnia amatoriale gestita dagli studenti dell’Università. La sua specialità, ça va sans dire, la realizzazione dei costumi di scena.

Nel racconto della vita di Hartnell il destino è protagonista sia quando, cinico e baro, gli metteva i bastoni di traverso, sia quando gli era particolarmente benevolo. Come quella volta che la compagnia aveva in programma uno spettacolo a Londra in un teatro di fronte alla redazione dell’Evening Standard e una giornalista a caccia di notizie trovò sulla scrivania i biglietti per una matinée alla quale assistette perché non aveva niente di meglio da fare. Minnie Hogg, questo il nome della columnist, si domandò il giorno dopo nella sua rubrica firmata Corisande: «È a Cambridge il genio dell’abbigliamento del futuro?». Il giovane di belle speranze, spinto dalla recensione positiva, scrisse alla giornalista, di cui divenne presto amico. Minnie Hogg condivise la sua rubrica di indirizzi con il talentuoso designer che, nel frattempo, aveva abbandonato gli studi. Pieno di entusiasmo, si aggiudicò il primo lavoro in una nota sartoria di Londra nell’ottobre del 1922. Nonostante si aspettasse mille sterline l’anno, la paga era di tre sterline la settimana. Accettò, quanto meno per fare esperienza.

In quel periodo fu chiamato per disegnare i costumi di uno spettacolo teatrale. Hartnell si fece in quattro per soddisfare la richiesta. Risultato? Il suo nome non venne inserito tra i crediti, solo Minnie Hogg ne fece menzione nella sua rubrica. Per non pensare alla delusione si consolò con l’idea di avere un lavoro, benché mal pagato. Un venerdì la sua datrice di lavoro gli consegnò le sterline della settimana, congedandolo. Di lui non c’era più bisogno. «Ero stato licenziato» scrive nelle sue memorie. «Era la vigilia di Natale». Hartnell cominciò quindi, come diremmo ora, a fare colloqui. Trovò sul suo cammino chi gli rubò i bozzetti pubblicandoli a proprio nome (vinse però la causa che intentò), chi non gli rispose al telefono e chi invece di assumerlo si accontentava di comprare i singoli disegni. «Faccio arte, non commercio!» si sfogava risentito, salvo capire poi sulla sua pelle che aprire una boutique richiedeva delle competenze anche di carattere economico e finanziario, alla stregua di «un negozio di fish and chips».

In quel momento, invece di gettare la spugna, Hartnell decise che si sarebbe messo in proprio. Dalla sua aveva un gruzzoletto, la disponibilità del padre a pagare un anno di affitto e l’appoggio incondizionato della sorella Phyllis. Si armò quindi di coraggio, proprio come aveva fatto San Giorgio contro il drago. La prima sede era al numero 10 di Bruton Street, nel centralissimo quartiere di Mayfair. In Silver and Gold è lo stesso stilista a raccontare degli inizi, della difficoltà di gestire un’attività vera e propria. È lui infatti a sottolineare che il libro non è una guida per insegnare a lanciare una grande maison de couture, anzi. Era piuttosto un avvertimento su tutto ciò che non andava fatto. Ma al di là di quello, sarà stata forse la giovane età, aveva nella superbia uno dei suoi più grandi difetti. Alla sorella che gli gironzolava intorno mentre disegnava e che gli faceva notare che forse dei vestiti meno pretenziosi avrebbero fatto girare gli affari, rispose con la frase con cui ancora oggi è ricordato: «Io odio la semplicità! È la negazione di tutto ciò che è bello» riportò lui stesso nell’autobiografia.

La strada di Hartnell per il successo fu piuttosto accidentata. Commise qualche passo falso, è vero, ma la sua colpa più grande alla fine era quella di essere un bravo stilista inglese in Inghilterra. Tutte le donne dell’aristocrazia volevano gli abiti usciti dagli atelier francesi. Hartnell decise allora di nuotare in quel mare, debuttando a Parigi, il luogo dove si trovavano sia la stampa sia i compratori. E fece bene. Nel 1934 aveva il suo giro di clienti che contemplava debuttanti, qualche lady dal sangue blu e attrici come Vivien Leigh, Linda Christian e Marlene Dietrich. Nell’autunno del 1935 arrivò la svolta tanto desiderata quanto cercata. Appena appresa la notizia dell’imminente matrimonio tra Lady Alice Montagu-Douglas-Scott, figlia del settimo duca di Buccleuch, e del duca di Gloucester, quarto figlio del re Giorgio V e della regina Mary, prese carta e penna si candidò a disegnare l’abito da sposa, ottenendo una risposta positiva.

Quello che non sapeva era che le damigelle sarebbero state le figlie del duca di York, Elisabetta e Margaret. Dopo l’abdicazione di Edoardo VIII, avvenuta nel 1936, quella graziosa fanciulla allora di neanche dieci anni, sarebbe diventata l’erede al trono britannico e questo non era previsto. Il destino, ancora una volta, ci aveva messo del suo. L’abito di Lady Alice viene ricordato per una particolarità: era rosa. Più di una circostanza contribuì a far escludere il bianco. Punto primo: la sposa era considerata in là con gli anni, avendo superato i trenta. Punto secondo: il matrimonio fu celebrato in forma più intima, e non all’abbazia di Westminster, a causa della scomparsa del padre di Lady Alice. Nonostante le premesse, che costrinsero Hartnell a immaginare un abito piuttosto semplice rispetto ai suoi canoni, ci fu grande soddisfazione a corte. Il couturier aveva conquistato due nuove clienti: la regina Mary e quella che al tempo era ancora la duchessa di York, la regina madre di Elisabetta II.

Quando il corso degli eventi per la famiglia reale cambiò a causa della decisione di Edoardo VIII di abdicare, nel dicembre del 1936, favorendo l’ascesa del trono del fratello, mutò anche la sorte di Hartnell. Non vestì la regina Elisabetta (madre) per l’incoronazione avvenuta nel 1937, la quale si affidò a Madame Handley Seymour, ma in compensò si occupò della regina Mary, della duchessa di Gloucester e delle damigelle d’onore. Fu un momento magico per il couturier, non solo per la commessa prestigiosa ma anche perché entrò più in confidenza con Giorgio VI e con sua madre, Mary. I due gli spalancarono le porte delle collezioni reali, dandogli un grande vantaggio che avrebbe utilizzato nel futuro.

Per i reali conoscere la tradizione, soprattutto quella vittoriana, quando si ha a che fare con loro è fondamentale. Hartnell era ormai il designer di fiducia della regina Elisabetta (madre), apprezzato anche da Giorgio VI. Quello che al re piaceva, non solo a sua moglie, era l’allure romantica che lo stilista amante dei volumi, del tulle e della crinolina sapeva dare alle sue creazioni, che guardavano più al passato che al presente. La moda di tendenza era roba per l’arcinemica Wallis Simpson, la donna per cui Edoardo VIII aveva abdicato. Le forme affusolate, i pantaloni e gli orli che scoprivano le caviglie erano i dettagli dello stile del demonio. Più rassicurante un abbigliamento vaporoso da regina d’altri tempi.

Hartnell fu chiamato a disegnare l’intero guardaroba della regina Elisabetta (madre) per un tour in Francia pianificato nel 1938. Il designer si sbizzarrì con fantasie e colori, ma la scomparsa del padre della regina costrinse lo stilista a dover immaginare tutto da capo. Visto che il viaggio fu spostato in estate, il nero sarebbe stato difficile da gestire. Ecco allora che una pennellata di bianco sugli stessi modelli avrebbe risolto il problema. Quello che lui stesso definì «white ensemble» lo fece diventare una star in Francia e gli procurò l’ammirazione di Christian Dior. Il celebre couturier, non è un mistero, invidiava benevolmente la relazione speciale del “collega” con la Royal Family. Arrivò la guerra e non era certo tempo per gli abiti da sera. Hartnell fu chiamato a disegnare vestiti di tutt’altro genere, su invito della stessa regina. Sviluppò in quella fase altre capacità relative alla conoscenza di altri materiali meno preziosi, dando il suo contributo all’abbigliamento di tutti i giorni per le donne del suo Paese.

Arrivarono tempi di pace e di conseguenza anche l’annuncio di un matrimonio che avrebbe restituito gioia e speranza al Regno Unito. La futura Elisabetta II si sarebbe sposata il 20 novembre 1947 con il principe Filippo. L’incarico era prestigioso, ma anche molto impegnativo. Ad Hartnell il compito di disegnare non solo l’abito nuziale della principessa ereditaria ma anche quello delle damigelle, capitanate dalla principessa Margaret, quello di Elisabetta (madre) e della regina Mary. Ancora una volta l’ispirazione era arrivata dal mondo dell’arte: era La Primavera di Botticelli il riferimento per l’elaborata creazione color avorio e argento, ricoperta di perle e cristalli e caratterizzata da ricami floreali. «L’abito più bello che io abbia mai realizzato» dichiarò il designer.

Fu naturale quindi per Elisabetta, una volta diventata regina, alla morte del padre Giorgio VI, chiamare, nell’ottobre del 1952, Hartnell per l’abito più importante della sua vita: quello per l’incoronazione programmata per il 2 giugno 1953. Il punto di partenza doveva essere il vestito da sposa, ma qui la posta in gioco era molto più alta. La creazione non doveva solo simboleggiare l’amore, ma il ruolo della sovrana nel Regno Unito e nel Commonwealth. Prima di arrivare al coronation dress così come lo conosciamo, Hartnell dovette immergersi nella storia del suo Paese, immaginando otto abiti diversi da sottoporre alla regina. Alla fine la spuntò il nono, una sintesi delle diverse proposte, dove sul bianco spiccavano l’oro, l’argento e le pietre leggermente colorate. I ricami, che avevano richiesto tremila ore di lavoro di sei ricamatrici esperte, richiamavano gli emblemi del Regno Unito e del Commonwealth. La sua casa di moda inoltre era impegnata nel realizzare gli abiti per le damigelle, per la principessa Margaret, per le altre reali della famiglia e per molte delle aristocratiche presenti.

«Uno splendore così non l’avevo mai visto prima e mai lo rivedrò» scrisse nel prologo del suo libro Hartnell, descrivendo il suo osservatorio privilegiato dietro le quinte di uno degli eventi più maestosi del XX secolo. Difficile avere una carriera all’altezza dopo un tale traguardo. Il couturier continuò a servire fedelmente la sua regina creando per lei, appunto, tantissimi vestiti: uno di questi era quello che la principessa Beatrice avrebbe voluto per le sue nozze. Quando la principessa Anna fu abbastanza grande per rivolgersi a lui, lo stilista poté affermare di aver creato abiti per quattro generazioni di donne di casa Windsor. Anche la principessa Margaret, nel 1960, si sposò con Antony Armstrong-Jones indossando un abito uscito dall’immaginazione di Hartnell. La maturità aveva ammorbidito lo stilista, che si piegò a linee essenziali senza troppi fronzoli, contrariamente a quello che avrebbe fatto a inizio carriera, tanto che quel vestito fu definito da Life «l’abito da sposa reale più semplice della Storia».

Questo non gli ha impedito di impegnarsi su altri fronti, poco ricordati. Anche per garantirsi la sopravvivenza, Hartnell ha avuto una linea di profumi, ha disegnato scarpe, gioielli e pellicce oltre a occuparsi di abiti da sposa e di ready-to-wear, quindi non solo di couture. Il suo tocco per quanto riguarda l’abbigliamento maschile si può tradurre nell’aver riproposto, alla fine degli anni Sessanta, la giacca doppiopetto. E poi non ha mai abbandonato l’amore per i costumi, non solo per il teatro ma anche per il cinema. Suoi gli abiti indossati da Katharine Hepburn in Improvvisamente l’estate scorsa. Il mondo però era davvero cambiato e Hartnell, nel momento in cui si affacciava sulla scena Mary Quant con le sue minigonne, fece fatica ad adattarsi a un’estetica completamente rinnovata, tanto che accettò di disegnare, lui che odiava la semplicità, le uniformi delle poliziotte britanniche. Del resto la fortuna non era più sufficiente per tirare avanti, soprattutto perché il creativo aveva tanto talento ma non aveva doti manageriali che gli consentissero di rimanere al passo coi tempi e di mantenere una struttura che non funzionava più come avrebbe dovuto.

In occasione del Giubileo d’Argento, nel 1977, la regina Elisabetta insignì Norman Hartnell del Kcvo (Knight Commander of the Victorian Order) per il servizio reso alla moda. Dopo di lui ci furono Hardy Amies, altro sarto reale, Paul Smith e Vivienne Westwood. Venne a mancare l’8 giugno 1979, ancora in attività anche se non alla velocità dei suoi anni «argento e oro» per citare il suo memoir. Se ne andò il «primo cavaliere della moda», come venne definito al tempo. Per uno con i suoi primati, mai titolo fu più azzeccato.

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