Cannes: intervista a Mohammed Rasoulof, in fuga da Teheran

di Arianna Finos (repubblica.it, 24 maggio 2024)

La sua presenza è stata incerta fino all’ultimo, ma Mohammed Rasoulof è arrivato a Cannes due giorni fa, e ora è qui, sulla Terrazza del Festival, al Palais, nel giorno in cui il suo The seed of the sacre fig (Il seme del fico sacro) passa in concorso e uscirà in Italia distribuito da Lucky Red e Bim. Rasoulof si sofferma a parlare, sotto il Sole, con intellettuali e amici dissidenti che sono venuti per incontrarlo. Più tardi, all’incontro con i fotografi, mostrerà le foto delle attrici del film.

Ph. Sameer Al-Doumy / Afp

È reduce da un pericoloso viaggio durato ventotto giorni, la sua fuga dall’Iran a piedi, attraversando il confine, superando montagne innevate, l’approdo in Germania e lo spostamento in Francia senza documenti, perché il suo passaporto è stato sequestrato nel 2017 al ritorno in Iran da Cannes, dove era stato premiato per A man of integrity. La decisione di lasciare il suo Paese è arrivata per la condanna, inflitta a Rasoulof, a otto anni e alla fustigazione, per “collusione contro la sicurezza nazionale”. L’ultimo film, Il seme del fico sacro, è stato girato in segreto, come il precedente, vincitore dell’Orso d’Oro, Il male non esiste.

La protagonista del film, Soheila Golestani, è stata imprigionata dopo aver partecipato alle storiche proteste del movimento Donna, Vita, Libertà che hanno scosso il regime autoritario a partire da settembre del 2022, dopo la brutale morte di Mahsa Amini. Nella prima scena del film una mano fa cadere proiettili su un tavolo, poi un foglio, una firma. Il protagonista, che ha servito nell’apparato statale da vent’anni, viene promosso investigatore, deve cercare le prove per il procuratore, ma in realtà è solo un burattino che esegue condanne di morte già decise. Questa nomina prevede la consegna di una pistola e la necessità di anonimato, per eventuali ritorsioni. La moglie accoglie la “promozione” con gioia, “tuo padre ne sarebbe fiero”, immagina una casa più grande in cui le due figlie adolescenti non debbano più dividere la stanza e un vicinato “più in linea con quello che siamo noi”.

È la madre a fare da filtro tra figlie e padre. Ma in piazza scoppiano le proteste Donna, Vita, Libertà, le studentesse hanno compagni e compagne che si ritrovano coinvolti nei cortei. Un’amica della maggiore, che hanno ospitato perché arrivata da poco a Teheran, viene colpita e sfigurata, poi arrestata, una delle centinaia. C’è una scena, girata all’interno di un salotto, in cui la madre ascolta la versione di regime delle proteste in televisione, mentre in contemporanea le sorelle si messaggiano, inviandosi reciprocamente video e testimonianze sulla realtà degli scontri, che viaggiano sui social.

Si apre una spaccatura sempre più grande tra l’uomo, che vince pian piano riserve morali e dubbi, abbracciando il sistema e la logica della repressione, e le figlie, che vedono le coetanee in lotta, che non credono alle teorie dei complotti internazionali, che sanno che a protestare non sono criminali, ma persone innocenti, arrestate, ferite, uccise, anche se ufficialmente morte per “infarto”. Rasoulof racconta la battaglia che si consuma in Iran all’interno della famiglia, le figlie, il padre e la madre, dilaniata tra l’amore per il marito e quello per le ragazze. E che sarà costretta a compiere una scelta. È un film in cui il regista fa un largo uso di materiali e video dei social. E che lascia una speranza.

Che significa essere qui, oggi?

«I miei sentimenti sono misti e contraddittori. Da una parte soffro per i miei attori, la mia troupe, la mia gente che non è qui con me, per gioire insieme del fatto che il nostro film è al Festival. Gli attori principali e i tecnici sono quasi tutti in Iran in questo momento e sono in pericolo o già arrestati. Il mio cuore è con loro, mi sento triste ad essere così lontano. Allo stesso tempo per me è strano sentire che potrei non tornare in Iran, è la prima volta che lascio il mio Paese senza un biglietto di ritorno. Ma devo confessare che per una volta, quando sono rientrato nel mio appartamento, qui in Francia, e ho aperto la porta di casa, non ho avuto la paura che ci fossero decine di persone nascoste pronte a saltarmi addosso. Ed è un bel sentimento».

Che viaggio è stato quello che l’ha portata in Occidente: ha attraversato il confine a piedi, tra le montagne?

«Il viaggio è iniziato molti mesi fa. Stavo girando questo film ed ero a un terzo delle riprese, quando il mio avvocato mi ha detto che la sentenza di otto anni per un caso precedente era stata emessa nei miei confronti. È stato molto disturbante. Prima di tutto per il film, non sapevo se sarei riuscito a finirlo. Ho provato a non pensarci, a concentrarmi sul lavoro e andare avanti. Ho cercato di capire dagli avvocati, poi, se avrei avuto la possibilità di finirlo. Loro mi hanno detto: “Andremo in appello”. Questo succedeva lo scorso gennaio. La seconda sentenza è arrivata mentre stavo finendo il lavoro, e ho provato a far trasferire tutto all’esterno dal mio montatore, per la post-produzione. Ho detto loro: ora il film è nelle vostre mani, non importa quel che mi succederà, voi dovete finirlo in base al copione ed essere sicuri che sia in salvo».

Poi è arrivata la conferma che la sentenza di otto anni sarebbe diventata esecutiva.

«Ho avuto due ore per decidere: di nuovo in prigione o, questa volta, lasciare il Paese? Ho capito che tornando in prigione sarei diventato un altro prigioniero politico, in uno stato di passività, senza poter lottare. E ho sentito che avevo ancora storie, scritte in questi anni. Volevo raccontarle e per questo dovevo essere libero. Così sono andato a casa, ho preso qualche oggetto, ho guardato dalla finestra le mie montagne, le piante e i fiori, che ho affidato a mia sorella, ho detto addio ai collaboratori e abbandonato tutti i miei dispositivi elettronici. Sono andato a casa di un mio amico a prendere dei contanti, perché non avrei potuto usare le carte. E da lì, al sicuro, mi sono messo in contatto con persone che avevo conosciuto in prigione: da questo punto di vista, è stata una esperienza utile. Mi hanno introdotto a contrabbandieri che fanno attraversare il confine alla gente».

Come ha valicato il confine?

«Ho fatto a piedi un lungo tratto tra le montagne, in mezzo a molti pericoli, il buio, predatori. Ho avuto paura, sono arrivato nel villaggio più vicino al confine e lì la cosa complicata è stata quella di capire come trasferirmi in una città dove ci fosse un console tedesco. Non avevo documenti e la mia identità doveva essere confermata. Avevo vissuto in Germania e le autorità tedesche hanno potuto identificarmi grazie alle impronte. Mi hanno inviato documenti per viaggiare in Europa. È stato complicato, ma ce l’ho fatta. Ho avuto i documenti. Il viaggio, in tutto, è durato ventotto giorni. E il giorno dopo l’arrivo in Germania ho dichiarato pubblicamente che avevo lasciato il mio Paese».

Il cinema è uno strumento politico, pensa che possa cambiare le cose nel mondo?

«Sì, io ci credo nel modo più assoluto. Possiamo cambiare le cose, possiamo lottare per la libertà, i diritti, la pace. La lotta è dura e deve essere costante, infinita. Allo stesso tempo, penso che la situazione oggi è migliore di cento anni fa. Dobbiamo andare avanti».

Dove ha trovato il coraggio di scrivere i suoi film in prigione, lottare, fuggire?

«Ognuno di noi ha bisogno di dare un senso alla propria vita, e per me la cosa più importante e significativa nel viaggio della vita è la libertà. Questo è quel che conta di più e ha il senso più profondo per me. La mia passione nella vita è la creazione, il cinema, il poter girare. Le due cose non sono separabili. Questo è il motivo per cui lotto».

Sua figlia Baran non la vedeva fisicamente da tanti anni, pur avendo ritirato al suo posto l’Orso d’Oro a Berlino per Il male non esiste. Ha sofferto per la sua assenza? Vi siete rivisti?

«Sì, ci siamo incontrati. Lei è qui con me, ora. Le sono davvero grato per avermi fatto questa domanda».

Le donne sono al centro del nuovo film, ma anche della rivoluzione in Iran. La speranza viene da loro?

«Sono anni ormai che le figure di maggior ispirazione nella ricerca della libertà e della democrazia, in Iran, sono femminili. Ci sono donne pubbliche importanti, penso a Narges Mohammadi, premiata con il Nobel per la Pace, in prigione, e tante altre, famose o anonime, che hanno avuto un coraggio e una resistenza estremi. Continuano a lottare e sono un riferimento per tutti noi. Soprattutto, penso all’attrice principale del film, Soheila Golestani, che sta attraversando questo viaggio estremamente audace e determinato, nella recitazione e nella vita da attivista. Penso alle due giovani attrici del film. Quando lei mi chiede da dove vengono il mio coraggio e la mia energia, beh, vengono soprattutto dalle donne che mi circondano».

Dopo le proteste e la morte del presidente Raisi nel trasferimento in elicottero, cosa succederà in Iran?

«Il sistema iraniano è una macchina. È una macchina criminale che viene messa in moto da alcuni individui. Non è la morte o il cambiamento di questi individui che fermerà la macchina. Continueranno a distruggere, danneggiare e commettere atrocità. La mia speranza e il mio ottimismo arrivano dal fatto che penso che, con una maggiore pressione esercitata dalla comunità internazionale, si permetterà finalmente al popolo iraniano di sbarazzarsi di questo sistema che ci opprime».

Lei ha vinto l’Orso d’Oro, è in gara per la Palma. I premi sono importanti?

«La presenza stessa del film a Cannes è l’aspetto più importante: è un messaggio di speranza per gli artisti e i registi iraniani. Abbiamo fatto questo film, la troupe e io, con un budget piccolo e in circostanze complicate. Ce l’abbiamo fatta lo stesso, ed eccoci qui. E questo è davvero ciò che conta di più. L’Iran ha numerosi registi, giovani registi, artisti, e devono sopportare la censura. Hanno davvero difficoltà a trovare la propria voce, al di là del sistema e delle restrizioni in cui operano. Quindi, il solo fatto di mostrare che siamo in grado di farcela e che noi siamo a Cannes è un messaggio di speranza per loro. Anche se i film dei giovani registi non vengono proiettati in Iran, almeno possono ancora esistere e possono viaggiare per il mondo».

La sua grande preoccupazione, oggi?

«Il cast e la troupe sono davvero nel mirino dei servizi segreti e del regime, e sono perseguitati. Mi aspetto che il Festival di Cannes protesti con il regime iraniano, affinché lasci vivere la propria vita a queste persone, restituisca loro il passaporto, semplicemente le lasci stare. E dovremmo davvero porci questa domanda, molto importante. Perché il regime iraniano ha così paura delle persone che raccontano storie? E perché perseguitano le persone che si dedicano solo a raccontare storie?».

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