Come sarebbe la politica italiana senza like sui social network?

di Dino Amenduni (wired.it, 31 luglio 2019)

Immaginate l’attuale scenario della comunicazione politica italiana sui social media, ma con un fondamentale cambiamento: il numero dei mi piace sotto i post dei vari Matteo Salvini, Luigi Di Maio, Giorgia Meloni, Nicola Zingaretti non più visibile al pubblico, ma solo all’autore del post… cambierebbe tutto. Oppure no?

Natalie Matthews Ramo / Slate
Natalie Matthews Ramo / Slate

Questo sforzo di immaginazione non è semplicemente un gioco distopico, ma è una questione che potrebbe diventare d’attualità in un futuro neanche troppo remoto. È in corso, infatti, un primo tentativo di demetricazione. Questa parola (traduzione letterale e un po’ cacofonica dell’anglosassone demetrication) ha origini relativamente antiche, perlomeno rispetto alla freschissima storia dei social media. E ha una storia che va raccontata (l’ha fatto molto bene Will Oremus su OneZero).

Nel 2012 Ben Grosser, uno studente, programmatore e artista di Chicago, ha iniziato ad analizzare l’impatto delle reazioni più visibili e superficiali alla pubblicazione di un contenuto su una piattaforma digitale (i mi piace ai post, per l’appunto) sulle scelte degli utenti. Detta facile: Grosser ha provato a studiare le strategie adottate per ottenere il maggior numero possibile di like. Per farlo ha creato una applicazione per Google Chrome dal nome Facebook Demetricator, grazie alla quale era possibile navigare sull’infrastruttura creata da Mark Zuckerberg, ma senza avere accesso alle reazioni ai post. Grazie a questa applicazione ha raccolto i dati di navigazione degli utenti che hanno deciso di utilizzare questa versione alternativa di Facebook e ne ha ricavato un paper accademico.

Questa ricerca, in estrema sintesi, dimostra che la corsa alla desiderabilità sociale che questo tipo di metriche incoraggia porta all’adozione di quattro comportamenti che non sono necessariamente funzionali alla creazione di un discorso pubblico costruttivo, anzi: aumento del tasso di competizione con gli altri; utilizzo manipolatorio delle emozioni; comportamenti di tipo reattivo (esempio: un utente può decidere di rispondere ai commenti sotto un post non tanto – e non solo – per sincero interesse nella conversazione, ma anche perché sa che un post molto commentato avrà più possibilità di finire sul feed dei propri amici. Basti pensare ai tanti “che ne pensate?” nei post di Salvini, che hanno proprio questo scopo) e tendenza all’omogeneizzazione delle posizioni espresse.

L’esito di questa ricerca ha trasformato Grosser da ricercatore ad attivista: lo studio, di fatto, suggerisce una rivalutazione in chiave etica dei meccanismi che regolano l’approvazione sociale e il successo sulle piattaforme digitali. E così, dopo il Facebook Demetricator, sono giunti i suoi fratelli anche per Twitter e, più di recente, per Instagram. A Facebook, inizialmente, non l’hanno presa bene: il Demetricator era stato rimosso dalle applicazioni disponibili per Google Chrome proprio su richiesta della società di Zuckerberg (Google, poi, ha successivamente deciso di riattivare la app), ma quel paper scientifico ha iniziato, piano piano, a farsi strada nelle strategie dei grandi gruppi.

Qualche settimana fa Instagram ha annunciato di voler sperimentare la scomparsa dei mi piace dai contenuti pubblicati sulla piattaforma in sei nazioni, tra cui l’Italia. Proprio Instagram, nel pieno della competizione contro Snapchat (piattaforma che ha adottato da subito un rapporto completamente diverso, su questo piano), aveva lanciato le sue Stories che, a loro volta, non offrono né la possibilità di cliccare su mi piace né di commentare pubblicamente. Le uniche due interazioni certificate sono legate al numero di visualizzazioni della Storia e alla possibilità di commentare privatamente. La demetricazione, anche se non è apparso da subito visibile, stava già avvenendo. Instagram ha negato che questa scelta sia legata al lavoro di Grosser, ma è evidente che questa sperimentazione nasce da un’esigenza reale: verificare se gli attuali ecosistemi digitali siano effettivamente confortevoli dal punto di vista della libera espressione del proprio pensiero. La stessa sperimentazione è in corso (ma su scala globale) anche su Twitter, che sin dalle origini è stata la piattaforma che ha preso più sul serio la ricerca di Grosser di qualche anno fa.

Ma torniamo al punto di partenza: cosa succederebbe alla comunicazione politica italiana senza la corsa al like? Prevederlo è molto complicato, e non è detto che alla fine la sperimentazione di Instagram porti alla demetricazione definitiva su quella piattaforma, così come non è detto che ciò accada su Instagram sia paragonabile a ciò che accade su Facebook, anche se le due infrastrutture fanno parte dello stesso gruppo aziendale. È però indiscutibile che le quattro distorsioni messe in evidenza da Grosser sono evidentemente protagoniste dell’attuale dibattito politico online. È in corso da tempo una gara, a volte ansiogena, per generare il maggior numero possibile di mi piace, con esiti a volte disastrosi dal punto di vista politico (come quel “aiutiamoli a casa loro” del Pd di qualche anno fa).

È indiscutibile che ci sia un uso delle emozioni in chiave manipolatoria: “il partito di Bibbiano” ne è l’esempio più tristemente fulgido. È indiscutibile che sia in corso una tendenza all’iper-reazione in comunicazione politica: basti pensare a ciò che è accaduto nelle ore immediatamente successive all’accoltellamento del carabiniere Mario Cerciello Rega, soprattutto da chi aveva interesse a promuovere una narrativa di tipo xenofobo, anche in assenza della benché minima evidenza. Infine, è indiscutibile che la politica, soprattutto a sinistra, abbia paura di dire qualcosa apparentemente impopolare su determinati temi, perché la pressione sociale legata ai like può portare, come Grosser ha rilevato, a un eccesso di conformismo (oltre che per assenza di alternativa politica, naturalmente).

In sintesi: non si sa come andrà a finire, ma visto ciò a cui si assiste quotidianamente, forse vale la pena di provare a vedere cosa succede in un mondo senza mi piace.