Da Lenin a Saddam, i dittatori hanno il callo dello scrittore. Ma il più bravo di tutti è Mussolini (così dice un libro uscito in UK)

(pangea.news, 16 aprile 2018)

Esempio emblematico. Nel 1933 Elio Vittorini, che insieme a Cesare Pavese è stato il fautore delle sorti editoriali di Italia nostra, ha 25 anni e tanta smania di far fama. Da giornalista culturale pratica su Il Bargello, settimanale di politica e cultura curato dalla Federazione provinciale fascista fiorentina, direttore Alessandro Pavolini.dictator-literatureQuel giorno Vittorini ha un compito importante. Deve scrivere la recensione a Vita d’Arnaldo, pamphlet romanzesco pubblicato da Il Popolo d’Italia, in cui Benito Mussolini rievoca la vita del fratello Arnaldo, morto nel dicembre del 1931, gran promoter della “mistica fascista”. Vittorini va ben oltre i limiti imposti dalla devota recensione. «Ecco un poeta», esulta. Poi, cita alcuni passaggi del testo. «Queste dieci pagine – è straordinario ma è così – mi ricordano le duecento del più bel romanzo, forse, di Tolstoj, del romanzo che s’intitola Infanzia». Insomma. Benito Mussolini è scrittore più bravo – e più sintetico – dell’olimpico Tolstoj. Ora: o Vittorini ha rosolato il cervello in olio di ricino – e un po’ è così – oppure, indubbiamente, il Dux un certo talento narrativo l’aveva davvero. L’episodio microscopico torna alla mente sfogliando il tomo – terribile e spassoso – di Daniel Kalder, giornalista per la Bbc, il Guardian e The Times, Dictator Literature: A History of Despots Through Their Writing (Oneworld, pp. 400, £ 16.99). Nel testo introduttivo (Tradition and the Individual Tyrant, che simula il superclassico testo di Sua Enormità T.S. Eliot Tradition and the Individual Talent) Kalder spiega il concetto: «Dall’epoca dell’Impero Romano, i dittatori scrivono libri, ma nel XX secolo questa attitudine è una specie di Krakatoa, l’eruzione di una verbosità dispotica che continua fino ai nostri giorni. Alcuni dittatori scrivono testi teoretici, altri producono manifesti spirituali, qualcuno scrive poesie, memorie o romanzi d’occasione». Soprattutto, di fronte al libro di un dittatore non c’è critica letteraria che tenga – vedi Vittorini –, il libro dev’essere accolto come il verbo di un dio e imposto come nutrimento alle masse tutte (come si sa il Libretto rosso di Mao Tse-tung, centone confuciano di scarsa ispirazione, è tra i libri più venduti dell’umanità, insieme alla Bibbia e al Corano, è il testo sacro della Cina moderna). Facile gioco sfottere i dittatori recenti affermando che i 55 tomi di Lenin non valgono la Guerra gallica di Cesare – il quale aveva capito che il genio di un tiranno non è “fare la Storia”, ma scriverla –, che il Mein Kampf è una scoreggia scoraggiante rispetto ai pensieri di Marco Aurelio, imperatore dai pensieri galattici ma che ha ucciso e rubato, come tutti, e che la sgrammaticata semplicità di Stalin – il dittatore che mandava i poeti nei Gulag, invidiandoli – fa ridere rispetto agli epigrammi scolpiti sulle pietre indiane del re Ashoka. Con una certa didascalica grazia, Kalder compila il The Dictator’s Canon con i “Big Five” (Lenin, Stalin, Mussolini, Hitler, Mao), poi passa a snidare i dittatori più recenti, Saddam Hussein, Gheddafi, Fidel Castro, tutti afflitti dal morbo dello scrittore. Per ciò che ci riguarda, Mussolini fa la parte dell’idolo. Giornalista, poligrafo, uomo “di spettacolo” e che ha fatto della Storia il gran teatro dei suoi ruggiti («Il corpo di Mussolini è diverso da quello sedentario di Lenin o di Stalin. Il suo corpo è in costante movimento, un corpo che combatte e che è desiderato da centinaia di amanti»), Mussolini «fu giornalista, oratore, poeta, storico, drammaturgo, biografo, autobiografo. Più di Lenin, Stalin e Hitler, ha scritto in una prosa leggibile e molto letta. E spesso nei suoi libri ha prefigurato la catastrofe in cui sarebbe caduto». Kalder, così, ci ricorda – e chi se lo ricorda? – che Mussolini è autore del romanzo d’appendice L’amante del cardinale (pubblicato a puntate, nel 1910, su Il Popolo) e del romanzo dedicato all’eretico Giovanni Huss (1913), ma anche di testi teatrali come Campo di maggio, con la collaborazione di Giovacchino Forzano (che fu librettista per Leoncavallo, Mascagni e Puccini), che si focalizza sui “cento giorni” di Napoleone (dietro cui s’adombra, obviously, la tragica icona del Dux). Il testo va in scena, con tripudio, all’Argentina di Roma nel 1930, nel 1932 debutta a Londra, nel 1935 diventa un film, con Corrado Racca ed Enzo Biliotti, poi tradotto in tedesco. Che c’importa? Due cose. Intanto. Perché non pubblicare come si deve, commentate, le opere letterarie di Mussolini? Altrimenti, son sempre gli anglofoni a insegnarci la nostra storia. Capisco. Difficile dissociare lo scrittore dall’uomo pubblico, l’autore di un libro dall’autore di una tenebrosa pagina di storia italiana. Secondo. Amiamo leggere le storie dei grandi uomini. Per quanto assassini, per quanto bastardi. Questo è. Per questo il libro di Kalder ha dato avvio a un tornado di articoli sulla stampa english (a titolo di esempio, due articoli un po’ più corposi dello standard: sulla Financial Review e sul New Statesman). Nel brutale dittatore vediamo riprodotte le nostre indicibili passioni – o ciò che vorremmo fare ma non abbiamo i coglioni di fare. Da una esistenza a stretto contatto con la morte e con la menzogna ci attendiamo rivelazioni epocali sulla vita. Di solito è lì che interviene lo scrittore: rende intrigante una esistenza altrimenti banale, contorta nel mero desiderio del potere.