Il film su Bannon, più narciso che populista

di Elisabetta Grandi (lettera43.it, 30 aprile 2019)

Steve non dorme mai. Steve ingolla orrendi beveroni di verdure perché vuole perdere 16 chili. Steve legge, Steve scrive, ma soprattutto sta al telefono. Dà ordini ai collaboratori, si incazza di brutto con uno di loro, perché gli sembra che non combini niente di utile. In pubblico, invece, non si incazza mai, è calmo e suadente, ma molto vigile.TheBrinkHa la battuta pronta, prontissima, come uno showman consumato. Una donna irrompe tra il pubblico durante un suo discorso e si mette a inveire. Steve si zittisce, e dopo che gli agenti l’hanno portata fuori a braccia dalla sala, guarda sornione la platea: “Forse era una delle mie ex mogli, L’avvocato deve aver tardato a mandarle l’assegno”. Scroscio di applausi.

Steve Bannon viene raccontato così, in presa diretta, dalla regista Alyson Klayman, che lo ha accompagnato e filmato per oltre un anno, tra la metà del 2017 e la fine del 2018, ricavandone il film The Brink. Sull’orlo dell’abisso, uscito ieri 29 aprile in Italia. Nel film, l’ideologo e fondatore di The Movement sembra un divo di Hollywood, ne ha l’aspetto e il carisma, ed è lui stesso a notarlo in una scena in cui rivede una propria foto giovanile in cui era veramente molto bello. Oggi è invecchiato e appesantito, ma la sua attività è frenetica: incontra, discute, tiene conferenze-comizi in circoli privati, viaggia in continuazione. Durante le riunioni ascolta gli altri e poi chiude con le sue sintesi, che diventano immediatamente slogan di propaganda offerti agli interlocutori per diffonderli tra i seguaci.

“Io non sono razzista – dice – né xenofobo, né antisemita. Io sono un nazionalista economico. La gente vuole una cosa: stare nel proprio Paese e avere un lavoro. È semplice”. Come il miliardario Trump (“Io gli ho fatto vincere le elezioni del 2016, non c’è dubbio”), anche Bannon si rivolge ai ceti medi e medio-bassi dell’Occidente, ma lo fa da una posizione personale ultra elitaria. Si sposta solo con jet privati insieme al suo staff, alloggia in hotel lussuosissimi, come quello settecentesco da cui, a Venezia, si affaccia sul Canal Grande a contemplare le gondole, mentre la regista riprende in primo piano la sua faccia stravolta, la barba sfatta, gli occhi rossi di chi dorme pochissimo o per niente. Intervistato da giornalisti molto tosti, che lo inchiodano con domande sulle sue frequentazioni o sugli appoggi a gruppi di estrema destra, Bannon ribatte a fatica, declina ogni coinvolgimento con razzisti e violenti. Più tardi, cinicamente, spiegherà ai collaboratori: “I media ci aiutano. Più sono ossessionati da noi, più fanno il nostro gioco. Come è accaduto con Trump”.

A dispetto del suo attivismo e delle sue sintesi, è difficile capire quale sia veramente il suo progetto di società o di mondo. Ha fondato The Movement, vuole incidere sulle elezioni europee del prossimo maggio, si definisce continuamente un rivoluzionario antisistema, teme l’espansione della Cina, paventa un rischio di terza guerra mondiale, “che può scoppiare nel mar cinese meridionale o nel Golfo Persico”. Ma quando chiacchiera in poltrona con l’ex Ceo di Goldman Sachs, Bannon sembra soprattutto un uomo di Goldman Sachs (dove fece carriera fino al ruolo di vicepresidente), prestato alla politica per una sorta di demone personale di onnipotenza. Senza contare il narcisismo debordante, lo stesso che deve avergli fatto accettare di essere protagonista di un film con la condizione di non poter intervenire sul montaggio finale.

A fine 2018 deve fare i conti con la sconfitta dei Repubblicani alle elezioni di Mid-term, che consegna la Camera a una maggioranza democratica (“Ora hanno loro il controllo sugli investimenti, il Muro con il Messico non si farà mai: peccato, avrebbe un grande valore simbolico”). Bannon appare infine come un ideologo e un manipolatore che si è schierato dalla parte sbagliata della Storia, e tuttavia ne sta all’interno, fiutando piste e opportunità per smontare il sistema e rimontarlo a favore di “popoli” dei quali chiaramente non gli importa nulla. Gonfio di sé, dei riconoscimenti e degli applausi che riceve dai sostenitori, sembra piuttosto un attore al tramonto, che porta il suo repertorio di monologhi e battute in giro per la provincia americana. Dopo un anno di riprese, non ha perso neppure uno dei 16 chili che voleva smaltire. Non lo si vede più mangiare passati di verdura, ma omelette con il bacon. First american food.

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