L’orgoglio country di Millie Jackson

di Daniele Cassandro (internazionale.it, 14 marzo 2023)

Diversi anni fa nel cestone delle occasioni di un grande negozio di dischi trovai un cd di LaToya Jackson intitolato My country collection. Era scontato al 70 per cento: alla metà degli anni Novanta la carriera musicale di LaToya, forse la meno musicalmente versata della famiglia Jackson, non interessava a nessuno. Specialmente in Italia. Ovviamente lo comprai e fui molto divertito dalle note di copertina che cominciavano così: “Forse il nome di LaToya Jackson non è il primo che vi verrebbe in mente pensando alla musica country”.

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Effettivamente no. Quello che allora non sapevo e che ho scoperto molto più tardi è che, pur non essendo memorabili, le incursioni nel country di un’artista pop soul afroamericana come LaToya Jackson non erano solo legittime, ma avevano radici culturali molto profonde. In quel momento storico in cui, nel Sud degli Stati Uniti, gospel, blues e country si mescolavano e s’ibridavano per dare origine a generi come il rock’n’roll, il rhythm’n’blues, il soul e il cosiddetto country classico, gli artisti neri erano country. E lo erano nel senso più profondo del termine: i loro antenati nati in schiavitù appartenevano letteralmente alla campagna, alla terra.

I proprietari terrieri schiavisti che avevano potere di vita e di morte su di loro li tenevano saldamente legati ai campi, alle piantagioni e al lavoro della terra. La musica nera è diventata musica di città (o “urban” come diciamo ancora oggi usando un termine ormai obsoleto) molto più tardi, con le grandi migrazioni verso il Nord industriale degli schiavi liberati. Prima di allora si può dire che la musica nera fosse musica country. Tutto questo prima che l’industria musicale segmentasse e razzializzasse i generi musicali sbiancando il rock’n’roll e il country e confinando la musica afroamericana al ghetto dei race records prima e delle classifiche dance e rnb dopo.

La grande soul woman Millie Jackson è nata nel 1944 a Thompson, Georgia, da una famiglia di agricoltori. Alla morte del padre, ancora bambina, si è trasferita a Newark, nel New Jersey. Quando è arrivata al Nord era decisamente campagnola e lei stessa racconta che in Georgia era più facile sentire musica country alla radio che soul o rhythm’n’blues. Jackson, nessuna parentela con LaToya e gli altri famosi Jackson di Gary, Indiana, è diventata molto nota all’inizio degli anni Settanta con una serie di album eccezionali come It hurts so good, Caught up, Still caught up e Feelin’ bitchy.

In quei lavori Millie Jackson ha affinato uno stile inconfondibile: un soul morbido e abrasivo allo stesso tempo, capace di esprimere grande sensualità e una decisa assertività sessuale. Jackson aveva fatto sue le istanze di libertà sessuale delle grandi blueswomen degli anni Venti e le aveva traghettate negli anni Settanta del femminismo della seconda ondata e delle lotte per i diritti civili. La musica di Millie Jackson non è mai stata politicizzata nel senso ovvio del termine, ma dava voce a un nuovo tipo di donna afroamericana.

Anche il suo stile colloquiale, pieno d’intermezzi parlati (in certi casi addirittura “rappati”, molto prima che il rap esistesse), la rendeva una sorta di confidente con cui si poteva parlare di tutto: di corna, di delusioni amorose ma anche del lavoro che non c’è, delle bollette da pagare. Poi ovviamente Millie parlava di uomini, i suoi e quelli delle altre, molto spesso raccontati come sfigati, alcolizzati, violenti, sfaccendati e col pene piccolo. Non c’era tema di cui Millie Jackson non potesse parlare e il suo linguaggio era sempre diretto, pieno di parolacce e di doppi sensi. Dopo una performance di Millie Jackson i discorsi di Samantha di Sex and the City sembrano melensaggini uscite da uno di quei vecchi diari di Hello Kitty con il lucchetto rosa.

Oltre al linguaggio esplicito e alle sue straordinarie capacità d’interprete soul, una costante di tutti gli album di Millie Jackson degli anni Settanta era che contenevano, in mezzo a tanto soul, funk, disco e rhythm’n’blues, sempre un pezzo country. Millie Jackson sa che lo spirito originario della sua musica è nel country che sentiva nel Sud: in quella franchezza rurale, in quel racconto in prima persona di gente semplice che snocciola i propri guai senza filtri e che se c’è da dire una parolaccia la dice. Con gusto.

Per questo Millie Jackson aveva sempre voluto fare un album country, ma la sua casa discografica gliel’aveva puntualmente impedito: la considerava un’artista “urban”, un’interprete di quell’estetica da cinema blaxploitation, romantica e un po’ freak ma soprattutto, sempre e comunque, ipersessuata, sboccata e provocatoria. Eppure nella storia della musica afroamericana non sono mancati gli album country realizzati da artisti neri: nel 1965 Ray Charles aveva aperto la strada con Modern sounds in country and western music e poi ci sono state le incursioni nel genere di Tina Turner, delle Supremes e di molti altri.

Nel 1980, con un cambio di management e di etichetta, Millie Jackson può finalmente coronare il suo sogno musicale: volare a Nashville e incidere un album country alla sua maniera. Che tutto è meno che una maniera classica. Ad aiutarla nella sua decisione c’era una moda, oggi dimenticata, lanciata da un film di John Travolta del 1980, Urban cowboy, che ibridava la cultura delle discoteche con un’estetica vagamente western, tra camperos, cappelli texani e giubbotti con le frange. Jackson era etichettata (anche) come artista disco funk, quindi perché non permetterle di cavalcare quella moda del momento?

Just a lil’ bit country si apre proprio con I can’t stop loving you, un pezzo di Don Gibson che compariva anche nel pionieristico album di Ray Charles. Millie però trasforma quella ballata in un numero disco funk, con una robusta linea di basso e una sincopata sezione di fiati. A un certo punto (minuto 3:50) la canzone si spezza in un vero e proprio breakdown come quello dei pezzi da discoteca che permettevano al dj di mixare il pezzo successivo. I can’t stop loving you dà il tono dell’intero album, che diventa sia un atto di riappropriazione nera della musica country sia un modo per proiettare la blackness “segreta” di quel genere musicale nel presente e nel futuro.

Pick me up on your way down perde quel senso di rassegnazione che aveva nell’originale per trasformarsi in una cavalcata tra la disco e il rock da autoradio. Chiaramente c’è l’influenza delle LaBelle e delle Pointer Sisters e, in filigrana, si vede quel lavoro di “poppizzazione” della musica country che quasi due decenni dopo avrebbe fatto la fortuna di un’artista (bianca) come Shania Twain. Nell’album ci sono anche pezzi originali scritti dalla stessa Millie Jackson che si sposano perfettamente con le canzoni più classiche. Ascoltate come nella tenera ballad Loving you la scrittura country western del pezzo si scioglie in un morbido e vellutato canto soul.

Anche I laughed a lot è un originale scritto da Jackson e torna su un tema classico del country: il successo di una donna che si è fatta faticosamente da sé e che dai campi di cotone arriva a Hollywood. La dura scalata della piramide sociale è un topos della musica country statunitense perché serve a rendere autentica l’esperienza del cantante e creare empatia con un pubblico per lo più working class. La tradizione vorrebbe che la protagonista della canzone, ormai ricca e famosa, meditasse sulla vuotezza del suo nuovo stile di vita e rimpiangesse la semplicità della campagna. Niente di tutto questo: arrivata in cima, Millie Jackson si accorge che Hollywood è molto meglio dei campi di cotone e rivendica ogni sua scelta. Alla fine arriva anche a sghignazzare e a dire “Ebbene sì, mi sto divertendo da matti”.

Provate a paragonare un pezzo “amorale” come questo a Lucky di Britney Spears, un pezzo tematicamente molto simile uscito quasi trent’anni dopo. Anche Britney, nativa della Louisiana, è imbevuta di valori, vezzi (soprattutto vocali) e di luoghi comuni della musica country western. Solo che, molto più tradizionalmente, la protagonista di Lucky, arrivata faticosamente al successo, bagna ogni notte il suo cuscino di lacrime, rimpiangendo la sua vita innocente di prima: “Se non mi manca nulla nella vita, perché ogni notte verso tante lacrime?”. La vecchia Millie Jackson invece si fa una risata e si dimostra anni luce più avanti: forse perché lei e il suo pubblico – a differenza di Britney e del suo, che hanno imparato a rimuovere il tema della povertà dalla loro cultura – sanno che essere ricchi e di successo è molto meglio che fare la fame in un’America rurale in via di desertificazione.

La zampata finale di Just a lil’ bit country è una cover, praticamente riscritta, di If you don’t like Hank Williams di Kris Kristofferson. La canzone originale è una manifestazione di orgoglio redneck: se non vi piace la musica di quel grande fuorilegge del country che è stato Hank Williams allora potete kiss our ass, baciarci il culo. La canzone cita una serie di grandi del country, da Willie Nelson agli Allman Brothers, che, guarda il caso, sono tutti bianchi. Millie Jackson si prende la canzone e anzitutto la cambia in Anybody that don’t like Millie Jackson, chiamando sé stessa direttamente in causa. E ovviamente nel pezzo vengono citati grandi artisti neri come Otis Redding e i Commodores.

La cosa davvero notevole di questa cover, che più che una cover è un esproprio, è che tra tutti i pezzi di Just a lil’ bit country è quella che suona più classicamente country: con la steel guitar e il violino e un ritmo quasi da mazurca improvvisata nel pagliaio. Oltre a non perdersi l’occasione ghiotta di dire a chi l’ascolta e non la gradisce che “può baciarle il culo”, Millie sottolinea che se si tratta di neri che sono stati influenzati dalla musica country lei non è stata la prima e sicuramente non sarà l’ultima. E pensando ad artisti afroamericani di oggi come Lil Nas X, Lizzo e Beyoncé aveva sicuramente ragione.

Just a lil’ bit country fu un fiasco clamoroso per Millie Jackson ma, più di quarant’anni dopo, suona più attuale che mai nel suo assunto di fondo: nella musica statunitense non esistono generi che siano solamente e puramente presidiati da bianchi. Se così sembra è perché quegli spazi i bianchi se li sono presi.