Toto Cutugno, l’italianità e la costruzione di una nazione attraverso le canzoni

di Maurizio Stefanini (linkiesta.it, 26 agosto 2023)

«Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente / E un partigiano come Presidente / Con l’autoradio sempre nella mano destra / E un canarino sopra a una finestra». Morto martedì 22 agosto, Toto Cutugno è stato attivo sulla scena musicale per cinquantotto anni; ha pubblicato ventotto album; ha vinto oltre cento milioni di dischi; ha, con quindici edizioni, un record di partecipazioni al Festival di Sanremo (pure alla pari con Al Bano, Peppino di Capri, Milva e Anna Oxa).

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Lo ha vinto nel 1980 con Solo noi, giungendovi inoltre sei volte secondo, una volta terzo e due volte quarto, più altri piazzamenti con brani scritti per altri artisti; è stato, nel 1990, il secondo italiano a vincere l’Eurovision Song Contest, dopo Gigliola Cinquetti nel 1964 e prima dei Måneskin nel 2021; però è stata L’Italiano la canzone che la folla dei fan ha intonato al suo funerale. E L’Italiano è stata anche la canzone su cui si sono alla fine concentrati tutti i commenti. Inno popolare per alcuni, monumento al trash e agli stereotipi per altri, anche se poi in realtà qualche sfumatura c’era. «Buongiorno Italia con i tuoi artisti / Con troppa America sui manifesti / Con le canzoni, con amore, con il cuore / Con più donne sempre meno suore».

Insomma, un po’ di autocritica sui difetti e limiti nazionali in fondo c’era, mentre a destra non è mancato chi ne ha preso le distanze proprio per quel rifermento al “Presidente partigiano”. Una contrapposizione tra dubbi di élite ed entusiasmo di masse che in fondo inizia da subito, con appena il quinto posto al Festival, ma il successo strepitoso, fino alla cover col Coro dell’Armata Rossa fonte di qualche perplessità in tempi di aggressione putiniana all’Ucraina, o alle versioni in Finlandese e Cinese. Una possibile storia politica del Festival di Sanremo non può non considerarla come una icona di quella Italia craxiana che prendeva slancio dalla vittoria ai Mondiali in Spagna e che si sarebbe schiantata su Tangentopoli.

Ma, appunto, una precisa analisi ne faceva Nazione pop. L’idea di patria attraverso la musica. Un recente libro scritto per Rubettino da Leonardo Varasano, e il cui sottotitolo avrebbe dovuto essere “L’idea di nazione e la musica, dagli inni nazionali al pop. Il caso italiano”. Poi è stato un po’ più sfumato, ma la stessa drammatica attualità della guerra in Ucraina si ricorda come «il tempo presente è ancora il tempo delle nazioni», anche se spesso si tratta di una idea «intiepidita». Il «nazionalismo banale» ha però sempre bisogno di alcune forme simbolo. Prime fra tutte, quella visuale delle bandiere e quella sonora degli inni. La Marsigliese ne è un archetipo della nazione moderna, anche se God save the King/Queen ne è un esempio molto più antico.

Il rapporto tra nazione e musica, osserva Varasano, «ha avuto un valore particolarmente considerevole nei processi di emancipazione nazionale: è esemplare, in tal senso, l’importanza che un pensatore come Giuseppe Mazzini ha attribuito al canto, all’opera e alla musica in genere anche in chiave risorgimentale». Si perdoni qua l’autocitazione, ma anche l’autore di queste note si occupò di Mazzini in un libro da lui dedicato al rapporto tra canzone e letteratura. Vi si ricorda che il fondatore della Giovine Italia fu non solo un chitarrista appassionato, ma anche un pioniere della etnomusicologia, con il suo arrangiamento di un canto popolare svizzero da lui ascoltato in esilio. «Nel Novecento, poi, un celebre intellettuale come Roberto Michels ha perfino teorizzato una sociologia delle canzoni nazionali, decisamente significativa benché misconosciuta», aggiunge Varasano.

Mazzini a parte, il Risorgimento ebbe una colonna sonora formidabile nelle musiche di Giuseppe Verdi. In particolare Va, pensiero: si ricordava sempre in Da Omero al rock, in effetti perifrasi in Italiano ottecentesco di quel Salmo 137 della Bibbia che è stato rifatto in una quantità di altre lingue, dal Latino di Pierluigi da Palestrina all’Anglo-giamaicano dei Boney M.; ma, di fatto, una sorta di pre-inno nazionale più volte riproposto. A volte anche in alternativa all’Inno di Mameli: Il canto degli italiani composto all’epoca della Prima Guerra d’Indipendenza da colui che sarebbe poi divenuto un eroe e martire della Repubblica Romana, e dopo tanti anni in cui era stato trattato praticamente da anticaglia di cattivo gusto infine rilanciato alla grande da Carlo Azeglio Ciampi. C’è quasi un prima Ciampi in cui gli atleti azzurri soprattutto lo ascoltavano, e un dopo in cui lo cantano a squarciagola.

L’Italia unita aveva in realtà avuto La Marcia Reale sabauda, che memorialisti della Grande Guerra descrivevano però spesso come «accozzaglia di note» quasi incantabile. Il fascismo vi aveva affiancato Giovinezza, che in realtà era stato in origine un inno goliardico e poi un canto degli arditi. Con la repubblica si era adottata come inno provvisorio La leggenda del Piave: canzone scritta da un autore di popolari canzoni napoletane che l’aveva composta in un momento di gravi problemi economici, in cui aveva idealmente sovrapposto la propria volontà di affrontare i creditori all’auspicio che i soldati affrontassero gli invasori, come lui stesso raccontò. E in effetti il brano aiutò sia l’Italia a vincere la guerra, sia lui a recuperare l’agiatezza economica.

Curiosamente Giovanni Ermete Gaeta, in arte E.A. Mario, oltre che autore di una canzone di vittoria come La leggenda del Piave, lo fu anche di una canzone che parlava di sconfitta e occupazione straniera come Tammurriata nera, anche se pure quella cercava di affrontare la situazione con spirito positivo: «Ca tu ’o chiamme Ciccio o ’Ntuono, / Ca tu ’o chiamme Peppe o Giro, / Chillo… ’o ninno, è niro, niro, / Niro, niro comm’a che». Essendo un mazziniano storico, però, E.A. Mario rifiutò una commissione di Alcide De Gasperi per scrivere un inno della Democrazia Cristiana. De Gasperi, allora, pose un veto alla La leggenda del Piave come inno nazionale. Dopo una proposta comunista dell’Inno di Garibaldi, si arrivò appunto a quello di Mameli.

Una cosa poco nota che Varasano ha ritirato fuori, però, è che a un certo punto Mazzini aveva commissionato a Mameli un altro testo che proprio Verdi aveva musicato, per farne un inno nazionale esplicito, dal titolo Suona la tromba. Ma – esattamente come accade, ad esempio, nel calcio quando due fuoriclasse che giocano assieme non si prendono – il paroliere di Fratelli d’Italia e il musicista di Va, pensiero assieme non funzionarono, e il pezzo fu un flop.

Ma non ci sono solo gli inni ufficiali. Varsano cita Michael Billig [Banal nationalismN.d.C.] per spiegare come l’idea di Nazione continua a proporsi in varie forme e gradazioni, e spesso in modi silenziosi, inavvertiti, «banali». Spesso non viene neppure nominata, eppure sopravvive e prospera. Le «banali profondità della coscienza nazionalista» si riproducono in una ricca molteplicità di manifestazioni. Tra queste c’è anche la musica. Ripercorrendo il legame tra musica e nazione alla luce della Filosofia della musica di Mazzini e dei Prolegomena sul patriottismo di Michels, il volume arriva fino al pop. Dall’analisi del caso italiano emerge una teoria di frasi, sintagmi, ritornelli inseriti in molte canzoni dagli anni Settanta a oggi. Nella musica popolare di massa il tema nazionale si presenta attraverso la celebrazione dell’amore o della nostalgia dell’Italia, il ricordo della storia patria, la critica al carattere e al malcostume italiani.

In particolare, c’è un filone sull’appello agli italiani in nome della critica ai vizi nazionali che dal «serva Italia» di Dante attraverso personaggi come Alfieri o Leopardi arriva al Povera patria di Battiato o a cose di Lucio Dalla, Roberto Vecchioni, Rino Gaetano o Antonello Venditti. Come d’altronde il filone del «Viva l’Italia» va dai citati Inni di Mameli e Garibaldi e La leggenda del Piave fino a Francesco De Gregori, Mino Reitano e, appunto, Cutugno. Come scrive Varasano, «nel clima successivo al Mondiale di calcio del 1982, vinto dagli Azzurri di Bearzot in finale contro la Germania Ovest, il brano del cantautore toscano – nel tempo oggetto di molte reinterpretazioni, traduzioni e citazioni cinematografiche – esprime un evidente orgoglio patriottico, una chiara rivendicazione di italianità. L’Italia, infatti, nonostante i suoi limiti (a partire da un eccessivo filoamericanismo), è per Cutugno la nazione a cui si può essere orgogliosi di appartenere».

«Lasciatemi cantare / con la chitarra in mano / Lasciatemi cantare / una canzone piano piano / Lasciatemi cantare / perché ne sono fiero / sono un italiano / un italiano vero». Nel videoclip, girato a Parigi, appaiono alcuni dei simboli nazionali citati nel testo della canzone, come il tricolore (compare a più riprese una ragazza vestita di verde, bianco e rosso) e la pasta (gli «spaghetti al dente»). L’Italia, animata dalla vitalità della musica, viene descritta come un Paese «che non si spaventa», dal profilo borghese eppure capace di condensare il senso del proprio riscatto postbellico in «un partigiano come Presidente» (Sandro Pertini) e il proprio senso di appartenenza nella bandiera (portata «in tintoria»), nel caffè (rigorosamente «ristretto») e nel calcio (con «la moviola la domenica in tv»). Insomma, Nazione pop.