Il significato politico dei capelli

di Ellen Burney (vogue.it, 18 novembre 2019)

Da sempre i tagli di capelli hanno una forte connotazione politica. Negli anni Venti le flapper girls esprimevano la loro voglia di libertà portando il caschetto, vedasi il Bloomsbury Set, o tagli più corti e maschili, come l’artista di fama internazionale Josephine Baker con il suo eton crop.

adoc-photos
adoc-photos

Negli anni Sessanta i ricci afro dell’attivista per i diritti civili dei neri Angela Davis divennero il simbolo stesso del movimento.

Granger / Shutterstock
Granger / Shutterstock

Negli anni Ottanta i ragazzi con pettinature punk con le loro mohicane appuntite guidavano la protesta contro l’establishment.

Parker Photography / Alamy Stock Photo
Parker Photography / Alamy Stock Photo

Nel 2014 la stilista Vivienne Westwood si è rasata i capelli per sensibilizzare l’opinione pubblica sui cambiamenti climatici. E nel 2015 anche l’attrice Rose McGowan si è tagliata i capelli a zero perché, come spiega nella sua autobiografia, Brave, non voleva più essere un oggetto sessuale. McGowan si è unita alle proteste del movimento #MeToo nel 2017, dopo aver dichiarato di essere stata stuprata da Harvey Weinstein al Sundance Festival nel 1997.

Ph. Tristan Fewings
Ph. Tristan Fewings

«I capelli sono stati utilizzati fin dalla notte dei tempi per esprimere le proprie opinioni politiche e i propri valori, lo vediamo nelle culture più disparate, in tutto il mondo» dice a Vogue Rachael Gibson, esperta di storia dei capelli (@thehairhistorian). «Le acconciature afro erano indissolubilmente associate alle battaglie per i diritti civili, e i capelli non stirati divennero un simbolo importante del movimento e della filosofia “black is beautiful”; gli skinhead rappresentavano la ribellione e il rifiuto dell’estetica tradizionale nella società negli anni Ottanta; la tassa sulla cipria per capelli del 1786 provocò il rifiuto di massa delle parrucche da uomo e introdusse una nuova tendenza, quella dei capelli corti e naturali. I capelli hanno sempre simboleggiato qualcosa di molto più profondo».

Colore di capelli = rivoluzione

E anche il colore dei capelli può attirare l’attenzione su una causa. Quando Nadya Tolokonnikova del gruppo punk Pussy Riot è stata arrestata sulla Piazza Bolotnaya a Mosca, nel 2015, i suoi capelli erano in parte tinti di verde, in tono con l’uniforme da detenuta che indossava, simbolo della sua protesta a favore delle donne nelle carceri russe. Nel Regno Unito, lo scorso ottobre, Bleach London ha disegnato il logo di Extinction Rebellion in nero sui capelli rasati giallo fluo di un’attivista (ton sur ton con i gilet gialli indossati dai poliziotti). Il logo di Extinction Rebellion, ormai riconoscibile, è un cerchio che rappresenta la Terra con al centro una clessidra che indica che per salvare il pianeta non c’è più tempo da perdere. «A differenza degli abiti, in genere con i capelli è più facile e accessibile rappresentare una tendenza o l’estetica del gruppo in cui ci identifichiamo» afferma Gibson. «Magari non ci si può permettere di comprare un abito di Vivienne Westwood, ma con un rasoio usa e getta e con della tintura per capelli economica si ottiene lo stesso risultato, ovvero mostrare al mondo che ci si identifica con il movimento punk».

«E i capelli possono essere usati come un supporto, letteralmente, per esprimere le proprie opinioni politiche» aggiunge Gibson. «Nel XVIII secolo le donne francesi adornavano le loro parrucche con modellini di navi e bandiere per dimostrare il loro sostegno e la loro lealtà durante le battaglie militari».

Heritage Images
Heritage Images

Agli Oscar del 2018 Meryl Streep, candidata al premio per la miglior attrice protagonista, ha decorato il suo chignon con una spilletta di #TimesUp per mostrare il suo sostegno al movimento che si batte contro le molestie sessuali.

PictureLux / The Hollywood Archive / Alamy Stock Photo
PictureLux / The Hollywood Archive / Alamy Stock Photo

Capelli post-Trump & Co.

I capelli possono dire davvero tanto. Un articolo del 2016 apparso su The Cut e intitolato The post-Trump haircut metteva in evidenza che molte donne hanno cambiato look proprio dopo l’elezione di Trump a presidente, passando da acconciature più morbide e nuance bionde a tagli più drastici e colori più scuri. «Quando vedi tutti quei capelli biondi sul pavimento, capisci che sta succedendo qualcosa di importante», ha detto alla rivista Nicole Butler, creative director presso Daniel’s Salon, a Washington. «È stata come una dichiarazione di indipendenza di massa».

Anche i tagli di capelli lunghi degli hippy negli anni Settanta riflettevano la loro ribellione e protesta. «I giovani che si lasciavano crescere i capelli mentre infuriava la guerra in Vietnam non solo volevano rappresentare una sfida ai capelli perfettamente curati dei loro genitori, ma volevano anche prendere le distanze dal conflitto proprio tramite i loro capelli lunghi, in netto contrasto con i tagli di ispirazione militare, così rigorosi e tutti uguali».

Ph. Wally McNamee
Ph. Wally McNamee

Nel suo Autoritratto con i capelli tagliati (1940), Frida Kahlo si dipinse in abiti maschili, con i capelli corti e in mano un paio di forbici e le sue trecce tagliate, e ciocche di capelli sparse sul pavimento, mentre in alto sono riprodotte le parole di una canzone messicana: «Vedi, se t’amavo era per i tuoi capelli, ora che sei rasata non ti amo più». Per i critici d’arte del MoMa probabilmente il dipinto simboleggiava la sua indipendenza ritrovata, dopo aver giurato che si sarebbe sostenuta economicamente a seguito del divorzio dall’artista Diego Rivera nel 1939.

Artepics / Alamy Stock Photo
Artepics / Alamy Stock Photo

«I capelli vengono spesso caricati di emozioni e di significati, e a volte è la società a farlo e non chi porta quei capelli» spiega Gibson. «Ad esempio, in un passato relativamente recente (più o meno fino agli anni Venti), le donne potevano portare solo i capelli lunghi, senza nessuna variazione, e non potevano mostrarsi in pubblico con i capelli sciolti. Le donne dovevano far crescere i capelli e portarli lunghi perché era un simbolo della loro femminilità e, di conseguenza, del loro valore come mogli e madri. Ecco perché, quando iniziarono a tagliarsi in capelli, negli anni Venti, le donne causarono tanto scandalo. E il senso di possesso dell’uomo sulla donna era tale che accadeva persino che i padri denunciassero i parrucchieri che tagliavano i capelli delle figlie senza il loro permesso. In tempi più moderni accade la stessa cosa quando il bob wash-and-wear di Vidal Sassoon, negli anni Sessanta, liberò le donne da estenuanti sedute settimanali dal parrucchiere: nel tempo libero potevano lavorare o fare quello che volevano».

Ph. Ronald Dumont
Ph. Ronald Dumont

La lotta per il cambiamento sociale

Uno studio del 2016 del Perception Institute conferma che le donne afroamericane che non si stirano i capelli sono soggette a discriminazioni sul posto di lavoro, come nel caso di Chastity Jones, a cui nel 2010 in Alabama venne ritirata un’offerta d’impiego perché si era rifiutata di tagliarsi i dreadlocks. Quest’anno, a seguito di molte altre cause civili, New York e la California hanno vietato la discriminazione razziale basata sulle acconciature e sulle pettinature. Il nuovo regolamento della Commissione per i diritti umani di New York, pubblicato a febbraio, sancisce il diritto delle persone di portare i capelli come vogliono, al naturale (non stirati), intrecciati o con acconciature come i dreadlocks, treccine e piccoli chignon come i cornrow e i Bantu knot, i capelli rasati e sfumati, le pettinature afro, il diritto di portare i capelli lunghi, senza tagliarli o spuntarli».

Di recente si è parlato molto della deputata Alexandria Ocasio-Cortez e di quanto spende per taglio e colore, ma chi si oppone al potere con le proprie scelte estetiche paga un prezzo ben più alto. Il giorno della festa della donna, l’8 marzo, di quest’anno, tre donne senza velo hanno protestato in modo pacifico contro le leggi del loro Paese, l’Iran, che impongono l’uso dell’hijab, distribuendo fiori alle passeggere della metropolitana di Teheran. Un video con le tre donne è diventato virale e il 31 luglio 2019 Monireh Arabshahi, sua figlia Yasaman Aryani e Mojgan Keshavarz sono state condannate a 55 anni di prigione complessivi per aver, fra le altre cose, «incoraggiato e sostenuto la corruzione e la prostituzione».11-Hijab-ProtestsL’episodio è avvenuto dopo un caso simile, quello di Nasrin Sotoudeh, l’avvocatessa iraniana per i diritti civili che, secondo quanto riferisce la famiglia, è stata condannata a 38 anni di prigione e 148 frustate lo scorso marzo per aver sostenuto la stessa causa anti-velo. Vida Movahed invece è stata arrestata nel 2017 per aver attaccato il suo hijab bianco a un bastone, sventolandolo mentre era in piedi su di una cassetta per gli attrezzi nell’affollata Revolution Street di Teheran.

Ay-Collection / Sipa / Shutterstock
Ay-Collection / Sipa / Shutterstock

La sua protesta ha spinto altre donne a seguire il suo esempio, e anche loro sono finite in carcere: #TheGirlsofRevolutionStreet è considerato il #MeToo iraniano. Il 2 settembre la 29enne Sahar Khodayari si è data fuoco davanti a un tribunale di Teheran dopo aver appreso che rischiava 6 mesi di carcere per aver provato a entrare in uno stadio di calcio – il cui ingresso è vietato alle donne – vestita da uomo. È morta a causa delle ferite una settimana dopo.

I capelli e le politiche sul genere

In Afghanistan la pratica segreta di vestire le ragazze con abiti maschili per ragioni che riguardano la libertà personale, ma anche il prestigio di una famiglia, si chiama bacha posh (“vestita come un ragazzo”) ed è stata documentata dalla giornalista investigativa svedese Jenny Nordberg nel libro The Underground Girls of Kabul. «Una famiglia senza un figlio maschio è considerata debole e senza prospettive per il futuro dei genitori, mentre i figli maschi e gli uomini vengono considerati come una valuta spendibile che dà la misura del potere in una società in gran parte non regolata da leggi» spiega Nordberg a Vogue. «La prima cosa da fare per una ragazza afgana che vuole diventare un bacha posh è tagliarsi i capelli.

Come racconta Azita Rafat, la deputata del Parlamento afgano la cui figlia più giovane si è travestita da maschio, le cose sono state molto semplici per la sua bimba, di 6 anni: una seduta dal barbiere, un paio di jeans e una camicia, e un nome nuovo, da “Manoush” al più mascolino “Mehran”». La famiglia della bambina ha avuto modo di apprezzare i vantaggi di avere un “figlio maschio” nell’ambito di una cultura, quella afgana, in cui vige una forte segregazione basata sul genere. «Ha potuto fare sport, andare in bici e in macchina sedere accanto al padre, compiaciuto e orgoglioso di avere accanto a sé un figlio maschio. Mehran ha potuto persino accompagnare in giro per il quartiere le sorelle, che hanno potuto godere di una maggiore libertà proprio grazie al “maschio” di casa. In alcuni Paesi un taglio di capelli è il piccolo prezzo che donne e bambine pagano per essere libere di uscire di casa».

Spread the love