Soap power. Come le produzioni turche hanno fatto vincere Erdoğan

di Adalgisa Marrocco (huffingtonpost.it, 29 maggio 2023)

È l’estate del 2022 quando su Canale 5 fa il suo esordio la soap opera Terra amara, segnando il ritorno sulla rete ammiraglia Mediaset delle produzioni turche dopo i successi e gli ascolti record di Bitter sweet, Daydreamer, The brave and the beautiful e Love is in the air. Anche se molti spettatori italiani potrebbero non esserne consapevoli, ad Ankara questi prodotti, esportati in decine di Paesi nel mondo, non sono considerati semplice intrattenimento.

Il presidente Erdoğan, fresco di rielezione con il 52% dei voti, ha compreso da tempo l’utilità della grande narrativa popolare per fare propaganda interna, espandere il proprio soft power all’estero e tentare di ristabilire l’egemonia culturale turca nell’area che un tempo era sotto il dominio ottomano. A metterlo in evidenza oggi, sulle pagine di Repubblica, è Mustafa Akyol, uno dei maggiori analisti di Turchia a livello globale. «Erdoğan ha consolidato l’idea dell’appartenenza identitaria come base della politica. “Noi siamo bravi musulmani, loro sono senza morale e senza religione”, ha detto ai suoi elettori. Il messaggio è stato rilanciato senza sosta dai media, controllati al 90 per cento dal governo: è arrivato persino nelle soap opera», afferma il senior fellow al Cato Institute di Washington preconizzando ancora maggiore controllo sui media da parte dello Stato dopo il risultato dell’ultima tornata elettorale.

Nulla di nuovo sotto il Sole. Già una decina di anni fa la stampa internazionale descriveva i serial televisivi come «il segreto del primo ministro turco», mentre a confermare la centralità di questi prodotti per la promozione internazionale del governo di Ankara era giunto Egemen Bağış, ministro degli Affari europei dal 2009 al 2013, definendoli «uno strumento perfetto per riflettere l’immagine della Turchia e dello stile di vita turco. Questo non solo per i nostri interessi economici, ma anche per quelli diplomatici e sociologici. Le serie» aveva chiosato «sono diventate uno dei mezzi più efficaci del nostro soft power». Così, fin dai primi anni 2000, la produzione e la distribuzione di soap opera turche all’estero è risultata in costante espansione, accreditando all’industria audiovisiva di Ankara il secondo posto nell’export dopo gli Stati Uniti. Secondo il ministero turco di Cultura e Turismo, in questi anni sono state centinaia le fiction partite dalla Turchia alla volta di altrettanti Paesi, conquistando un pubblico di 500 milioni di spettatori in Medio Oriente, Nord Africa, Europa, Asia e perfino in America Latina, la patria stessa delle telenovelas.

In Italia, uno dei maggiori successi nati da questo import è stato la soap opera Daydreamer, che ha consacrato l’attore Can Yaman tra gli idoli delle telespettatrici italiane. «I protagonisti sono giovani e avvenenti, le storie (di passione e riscatto) sono universali, le ambientazioni iconiche con scorci di città, paesaggi o luoghi di lavoro», ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera parlando di un prodotto «semplice nella trama e colorato nella fotografia», contraddistinto da «dialoghi piatti e una regia minimale», che mostra «una Turchia ben diversa da quella che potremmo attenderci». Anche il critico ha messo in evidenza che» le serie turche sono utilizzate e promosse dal governo di Erdoğan come progetto di espansione culturale e di immaginari: la Netflix della cultura turca… Niente tabù, pochi o nulli riferimenti religiosi, un mix di tradizione e modernità funzionale a un racconto alternativo del Paese. Che ora colonizza i palinsesti e delle tv commerciali d’Occidente. Dovremo rifletterci».

Al di là delle narrazioni ambientate in contesti contemporanei, spiccano i prodotti in costume, particolarmente funzionali alla propaganda interna. Lo sceneggiato Muhteşem Yüzyıl (Il secolo magnifico), lanciato nel 2011, è considerato il capostipite della serialità a tema ottomano. Ispirata alla vita di Solimano il Magnifico, sultano dell’Impero nel XVI secolo, la serie ha ottenuto un grande successo internazionale, raccogliendo circa duecento milioni di spettatori in quattro continenti. Erdoğan e il suo partito, dapprincipio, avevano condannato la serie per la sua rappresentazione, a loro parere distorta e irriverente, delle vicende storiche e personali di Solimano, minacciando finanche la sospensione della messa in onda. Tuttavia, il senso pratico del Rais ha prevalso sulla censura: se un prodotto mediatico funziona, meglio sfruttarlo a proprio vantaggio.

Così, nel 2017, è andata in onda per la prima volta Payitaht: Abdülhamid (letteralmente, La Capitale: Abdülhamid, tradotto in inglese con il titolo The last emperor), serie della rete pubblica Trt1 che racconta la storia di Abdülhamid II, il terzultimo sovrano dell’Impero ottomano. La trama si concentra sugli intrighi, le macchinazioni e i drammi familiari ma, a differenza de Il secolo magnifico, si distingue per una prospettiva considerata più edificante rispetto alla memoria storica turca. Il protagonista, infatti, viene presentato come un sovrano senza macchia e senza paura circondato da traditori, patriarca e marito affettuoso ma inflessibile. Payitaht: Abdülhamid è diventata oggetto di critiche internazionali che, come riporta il Washington Post, ne hanno evidenziato la natura revisionista, intrisa di retorica antioccidentale, antisraeliana, antisemita, antidemocratica e antisecolare. La serie è finita addirittura in una mozione di condanna del Parlamento europeo. Nonostante le critiche, il presidente Erdoğan ha elogiato lo sceneggiato, sottolineando che gli intrighi narrati troverebbero replica moderna per mano dell’Occidente.

Insomma: il martellamento mediatico di sapore panislamista e nazionalista, di cui Payitaht: Abdülhamid potrebbe essere considerato il massimo esempio, rappresenta una delle strategie di cui Erdoğan si avvale per mantenere e consolidare il proprio controllo sulla sfera pubblica interna. Parallelamente, mentre milioni di telespettatori nel mondo rimangono incantati dalla leggerezza di personaggi, trame e scenari, il “soft power” turco si fa sempre più pesante.