Storia di come “Striscia la notizia” ha portato i deepfake in Italia

di Davide Piacenza (wired.it, 22 marzo 2021)

La prima volta che qualcuno ha usato il termine deepfake era il 2017, Donald Trump era alla Casa Bianca da qualche mese, in Italia il presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni e quella parola – usata da un manipolo di accademici e addetti ai lavori del settore dei media e del tech – era appena stata coniata per indicare un fiorente immondezzaio di fake pornografici che avevano iniziato a colpire diverse attrici di fama internazionale su Internet, un fenomeno tale da portare Reddit a proibire la pratica di innestare volti di star del cinema su corpi di pornostar. Due anni dopo, fuori da ogni bolla dei social network, a trasmettere il primo deepfake autoprodotto della televisione è però stato un “tg satirico” che va in onda da più di trent’anni, con ascolti che lo piazzano nell’Olimpo del nazionalpopolare italiano: Striscia la notizia, il programma di Antonio Ricci.

Canale 5
Canale 5

Con la diffusione del deepfake di Matteo Renzi, a settembre del 2019, si sono innescate diverse polemiche (anche qui su Wired): era giusto che a milioni di telespettatori venisse dato in pasto un ex premier in tutto e per tutto indistinguibile dall’originale, senza rendere ulteriormente chiaro che si trattava di un imitatore riplasmato da un algoritmo (nonostante una conferenza stampa voluta da Ricci stesso per precisare che era tutta finzione)? Prima ancora: sarebbe stato privo di conseguenze? Fatto sta che da allora Striscia ha placidamente continuato sulla sua strada, trasmettendo in prime time stupefacenti alter ego di Matteo Salvini, Sergio Mattarella, Jorge Mario Bergoglio, Andrea Pirlo, Mara Venier, Amadeus. L’artefice di questa svolta tecnologica – che nel frattempo forse abbiamo dimenticato, ma che continua a fare capolino nel modo in cui un Paese intero si rapporta al tema del falso e dell’identità – si chiama Francesco Angeli, ed è un ingegnere toscano dai modi affabili che lavora a stretto contatto col team dell’eminenza grigia Ricci: Wired gli ha chiesto cosa significa portare un’invenzione del sottobosco di Internet a cinque milioni di telespettatori.

Francesco, iniziamo parlando di te: qual è il tuo background di formazione, come hai iniziato?

«Sono un ingegnere idraulico, e ufficialmente quello che faccio si chiama Ingegneria Multimediale Integrata. Ho cominciato più di vent’anni fa, e allora produrre multimedia era come l’invenzione della bicicletta: una cosa estremamente tecnica, impostata quasi da scienziati. La mia specializzazione è studiare alcune caratteristiche narrative dei media e trovare un modo per riprodurle in mercati con budget diversi: l’esempio classico è trovare il modo di replicare la scena di un film nella televisione. Parallelamente ai miei studi ho fatto improvvisazione teatrale per anni, cioè ho sempre combinato i numeri a quello che oggi definiscono storytelling».

Com’è nata questa opportunità con Striscia la notizia?

«Fino a un paio d’anni fa lavoravo con un gruppo creativo in cui c’era una specie di ossessione per riprodurre il Salvini pre-Papeete, quello del 2018, ai tempi del primo governo Conte: l’idea era creare degli avatar, con esperimenti modesti di Intelligenza Artificiale. La cosa non ha avuto successo, anche perché replicare in 3D un personaggio lo rendeva di per sé meno credibile. Nel 2017 o 2018 ho letto un articolo illuminante, che diceva in sostanza: Google ci ha dato l’Intelligenza Artificiale, e noi la stiamo usando per il porno. Per me è stato mind-blowing, come si dice in Inglese. A colpirmi è stato il fatto che la routine del deep learning fosse gestita dai programmatori, insomma i primi utenti di queste tecnologie erano persone giocoforza lontane dai media. Tutti mettevano la faccia di Tizio sul corpo di Caio, ma nessuno si era domandato se fosse possibile anche creare dei contenuti in questo modo. Durante l’estate di quell’anno, dopo un brainstorming con un collega, mi sono detto: abbiamo la possibilità di generare dei volti, perché non metterli sui nostri corpi e fargli dire ciò che vogliamo dire noi? A quel punto mi sono rivolto agli imitatori, premiando le corrispondenze fisiche e morfologiche coi personaggi che volevamo ricreare. Ho passato dieci giorni delle mie vacanze a compulsare le chat su deep learning e generative adversarial network – mentre la mia fidanzata mi guardava storto –, e una volta tornato a Milano mi sono rivolto subito ai miei primi clienti: tutti mi hanno risposto cose come “mah”, “boh”, “ma che ci faccio?”, “l’ho già visto” (riferendosi magari a quello di Barack Obama su YouTube) e via discorrendo. C’era una totale assenza di meraviglia riguardo allo strumento: è il problema dei media televisivi, in cui si dipende da pochi editori, spesso anagraficamente anziani e con nessuna voglia di mettersi in gioco. Sapevo di avere per le mani una potenziale bomba atomica per il mondo della comunicazione e dei media, che andava gestita nel modo giusto: mi è venuta in mente Striscia. Antonio Ricci mi ha richiamato nel giro di un pomeriggio per discutere della proposta. La svolta è stato l’incontro con loro. L’idea di Striscia era un’evoluzione semplice ed efficace del mio progetto: generare dei volti e metterli però su corpi veri e fargli dire ciò che volevamo. A quel punto ci siamo rivolti agli imitatori, premiando le corrispondenze fisiche e morfologiche coi personaggi che volevamo ricreare».

Cosa significa lavorare con Striscia la notizia o creare deepfake per loro?

«Significa anzitutto mettere in mano questa bomba a persone che hanno un codice etico, cosa che non avviene in altri contesti. E meravigliarsi di fronte all’entusiasmo genuino di Antonio Ricci per il progetto: l’idea non avrebbe potuto funzionare senza materiale umano, contenuti e una vetrina come quella offerta da questo palcoscenico. E oggi si parla tanto di esempi d’oltreoceano, col più classico complesso d’inferiorità italico, dimenticandosi che Striscia è stata la prima trasmissione al mondo a mandare in broadcast materiale deepfake autoprodotto. Dopo sono arrivati quelli di South Park, Tom Cruise eccetera: ma solo dopo».

Tornando sul “codice etico”: in questo senso, come hai preso tutte le polemiche seguite alla prima messa in onda del deepfake di Renzi?

«Li ho trovati i fisiologici atteggiamenti di frustrazione di chi è rimasto fuori dal flusso. Quella cosa era necessaria: sebbene non ci siano ancora app per creare deepfake ben fatti, i codici sono sempre più semplificati e reperibili online. Doveva succedere, e allora meglio farlo succedere in un contesto satirico che dichiarare guerra alla Cina, toh. Al limite questa tecnologia andava limitata prima, all’inizio, ma come spesso accade non si erano immaginati gli usi che ne sarebbero nati. Due anni fa vedendo una qualunque cazzata in Rete non tutti avrebbero detto ah, ma è un fake: non è poco».

In un video trasmesso in prima serata su Canale 5 durante il tg satirico per rispondere alle polemiche sul deepfake di Renzi tu, intervistato, hai detto una frase che mi ha colpito, in questo senso: “Invece di distruggere il pianeta l’abbiamo vaccinato”. Una metafora importante, di questi tempi.

«Raccontare al prossimo che ci possono essere cose che vediamo che non sono vere – l’intento dichiarato di Striscia e Antonio Ricci – aggiunge anticorpi anche al cervello del fruitore più rozzo. La tv la si guarda in panciolle sul divano o facendo altro, e informazioni false possono sempre penetrare la corteccia cerebrale. Chiaramente il rischio è di esagerare e fare in modo che nessuno creda più a nulla, dall’altro lato, ma viste le note teorie sull’epoca dell’eccesso di informazione e il cosiddetto rumore bianco, instillare un po’ di incredulità non può che fare bene. E la colpa di tutto questo è anche dell’informazione tradizionale, che subisce un tracollo di credibilità senza fine».

Ma come si fa a spiegare cosa sono i deepfake a un pubblico così ampio?

«Sarebbe abbastanza semplice, e permetterebbe anche di capire quanto sia legittimo farlo: il computer – dotato di una grande capacità di calcolo – agisce come il miglior ritrattista possibile, né più né meno. Gli fai vedere tanti ritratti della persona che vuoi ritrarre, praticamente gli insegni a ritrarre. E lui impara. È tutto qua».

Notizia recente: in Pennsylvania una donna cinquantenne – quindi non una cosiddetta nativa digitale – è stata arrestata per aver creato deepfake delle cheerleader rivali della figlia, ritraendole in pose pornografiche per far perdere loro il posto nella squadra locale. Che i deepfake siano rischiosi siamo d’accordo, mi pare, ma la loro popolarizzazione non rischia d’innescare quella bomba atomica di cui parlavi?

«È troppo tardi. Il deepfake è come un coltello da cucina, e nemmeno dei più affilati: dipende dall’uso che vuoi farne. Io ci taglio le verdure. Poi ovviamente in quella vicenda risalta l’uso malizioso del materiale da parte della donna, che vive in una zona grigia del Diritto. Quando finalmente riusciremo a essere proprietari anche del nostro volto e del nostro corpo, entreremo in una nuova fase».

C’è un deepfake di Striscia a cui sei più affezionato per qualche motivo?

«Beh, Renzi mi ha fatto tremare le gambe. Mi commuovo ancora a parlarne, guarda. E non solo per il primato, anche perché in realtà è il secondo deepfake: il primo era un Salvini mostrato ai giornalisti in precedenza, ma al tempo non ero ancora tanto bravo. Poi ho avuto la fortuna di avere un supporto autorale di Striscia che mi ha permesso di fare tante cose belle. Ma mi trovo in difficoltà a scegliere un deepfake solo. Devo dire che da quando siamo in periodo di Covid mi sto divertendo molto a lavorare da remoto con gli imitatori: lavoro con persone che si sono dovute giocoforza creare un set in casa, che sono diventate i tecnici di sé stesse. Ho condiviso con loro delle liste di oggetti Amazon da acquistare, ho dato dritte sull’allestimento dei set e i codec da usare. Ci siamo ingegnati».

E d’altronde a questo servono gli ingegneri, no?

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