Un candidato senza social e altre idee per la corsa al Quirinale

di Guia Soncini (linkiesta.it, 26 gennaio 2022)

Una cosa importante, nella vita, è imparare a riconoscere chi è più bravo di te. A riconoscerlo senza contorcimenti, intendo. A riconoscerlo senza: sì, ma. A riconoscerlo senza: proprio per questo non voglio abbia quel posto di rilievo, dove tutti noteranno la differenza. È un buon criterio anche per le istituzioni, volendo. Ovviamente va quasi sempre al contrario: va come dice Fran Lebowitz per la letteratura, che dovrebbe essere una porta verso l’ignoto e invece pretendiamo sia uno specchio del noto; va che preferiamo votare uno che ci somigli, a noi e alla nostra comoda mediocrità: perché altro credete avesse vinto Trump? E quindi ieri Concita De Gregorio, che è più brava di me, ha sintetizzato in mezzo rigo (io ci avrei messo venti svelte cartelle) il manifesto della politica che vorrei.

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«Tutt’al più Amato, che ha un Nokia». Parlava dei desideri di Draghi, e del suo fidarsi solo di chi, come lui, non mandi faccette sorridenti agli interlocutori, non s’autoscatti compiaciuto, non abbia una comunicazione lavorativa che più che da statista è da p.r. d’una discoteca; parlava del suo non esser convinto da Casini, che a quanto pare è invece molto telefonabile, molto emoticonabile, molto sollecito nel rispondere (forse non in questi giorni: sempre ieri, Fabrizio Roncone scriveva che «in queste ore è più facile intervistare una giraffa»), molto specifico nel geolocalizzarsi («scusa sono in doccia» in vivavoce, riferisce Concita: Casini è dunque il marito ferragnico della DC? Pronto a instagrammarsi dal gabinetto mentre filma il figlio che lo interrompe? Neanche la DC è più quella d’un tempo? O abbiamo sopravvalutato l’originalità della vita in diretta, credendola invenzione ferragnica e non democristiana?). Ma avrebbe potuto parlare di me, che da anni sogno un candidato senza social: sono pronta a votarlo fosse pure del Ku Klux Klan, basta che col cappuccio bianco non ci s’instagrammi. Avrebbe potuto parlare della maggioranza silenziosa del Paese, quella che si è scocciata d’una politica a misura di «onorevoli bimbeminchia appassionate del web» (sempre dai giornali di ieri, questa volta Filippo Ceccarelli a proposito dell’Instagram di Licia Ronzulli). Vorrei che queste votazioni non finissero mai, non solo perché quelli bravi a scrivere di politica in queste circostanze in cui c’è da descrivere la melina diventano bravissimi, non solo per l’insostituibile mandarinitudine di Paolo Mieli nello studio televisivo di Enrico Mentana. Vorrei che non finissero mai perché un’altra cosa che illuminano è uno dei miei scollamenti preferiti della contemporaneità: quello tra la mole di cose che c’è da sapere per parlare sensatamente d’un tema, e la convinzione delle nuove generazioni che basti Google, e che comunque il mondo sia nato il giorno in cui chi parla s’è creato un profilo social. Prima di allora, non era avvenuto niente che importi sapere.

E quindi, tra l’altro ieri e ieri, la militanza cancelletta ha scoperto questo gravissimo scandalo, questa irrispettosa novità, quest’inedita maleducazione: durante le votazioni per il Quirinale, durante le prime votazioni che già si sa non porteranno a nulla perché i partiti non si sono messi d’accordo su un nome, qualche burlone scrive nomi a casaccio sulle schede. Ieri militanti indignatissimi per le schede «Amadeus» dell’altro ieri, ma pure per i «Rocco Siffredi» di sette anni fa (non hanno improvvisamente memoria storica, sia pure a breve termine: hanno letto da qualche parte che era stato votato Siffredi e non hanno capito che non era avvenuto nei sette minuti precedenti; contestualizzare è attività specialistica). Attendo con un certo qual frisson che oggi scoprano i voti «Camilla Cederna» del 1985, o che nel 1992 a un certo punto ci furono più voti che votanti: un personaggio d’un programma televisivo di quegli anni avrebbe detto «truffa truffa ambiguità», ma era un programma satirico, i moralizzatori con uso di smartphone dicono sul serio. Per avere così poca memoria storica, tanto varrebbe avere anche loro un Nokia, anche se, certo, renderebbe complicato incassare in quella valuta che sono i cuoricini. Tanto per citare un altro di quelli che erano vivi quando c’erano i telefoni a disco (e persino quando non c’erano ancora), Rino Formica: «Non c’è più alcun pensiero. Soltanto attori che recitano senza conoscere la trama». O senza aver imparato a usare gli archivi disponibili nei loro comodi telefoni. Luddisti come un Draghi o come un Amato, ma con esiti diversi.

Tra l’altro il luddismo è una posa che può dare un fracco (bolognesismo) di vantaggi. In una puntata del 2002 di The West Wing, il presidente Bartlet dà del cretino a quello che è il suo avversario per il secondo mandato presidenziale. Per giorni i repubblicani continuano a pretendere scuse formali, e per giorni la portavoce della Casa Bianca ripete che il presidente non sapeva d’avere il microfono acceso, e – come accade a tutti – ha detto qualcosa che in pubblico non avrebbe mai detto. Finché persino lo staff presidenziale (che nella serie ci viene spacciato per intelligentissimo ma ci arriva sempre dopo, per non far sentire scemo il pubblico) inizia a capire che, se da una settimana si discute solo dell’ipotesi che il candidato repubblicano sia scemo, forse Bartlet l’ha fatto apposta. Forse ha fatto solo finta di non sapere che le telecamere erano ancora accese. Vent’anni dopo, la stessa cosa succede a Joe Biden (la Storia si ripete sempre: la prima volta come puntata di West Wing, la seconda come fatto di cronaca). Per ventiquattr’ore si discute della sua goffaggine, sì, ma soprattutto del giornalista di Fox News del quale ha detto «stupido figlio di buona donna», certamente ignaro che, con un microfono davanti, tutti l’avrebbero sentito. A nessuno viene il dubbio che fare quelli goffi con la tecnologia convenga. Nessuno ha voglia di riconoscere quelli più bravi.

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