
di Antonella Piperno (agi.it, 29 aprile 2025)
Non è un caso che la Jannik Sinner Foundation, lanciata ufficialmente alla vigilia del ritorno alle competizioni dopo lo stop imposto dal caso doping, fosse stata annunciata dal numero uno del mondo nell’ottobre scorso. Quando, vincendo la superlussuosa e anche stracafona esibizione 6 Kings Slam, a Riad, e intascando la bellezza di sei milioni di dollari, Sinner chiarì che li avrebbe destinati alla fondazione che stava per varare.
«I want to give back», voglio restituire «e rendere possibili i sogni dei bambini» dice oggi Sinner nel video dove, su uno sfondo montano e circondato da ragazzini che sembrano un po’ quello dallo sguardo sognante cui il campione si affianca a sorpresa in doppio in uno spot pubblicitario, presenta la sua Fondazione: creerà spazi in cui lo sport e l’istruzione diventeranno strumenti decisivi per la crescita e l’istruzione di molti bambini. L’esigenza di restituire, di destinare a cause nobili una parte dei montepremi e dei lauti proventi degli sponsor pur senza arrivare a scelte estreme come quella dell’ex tennista francese Mary Pierce diventata missionaria alle Mauritius, è un comune denominatore nella vita di tanti tennisti, perfino di chi passa da sempre come un bad boy.
Vedi Nick Kyrgios, il principale accusatore di Sinner sul caso Clostebol. L’australiano ha creato la NK Foundation, che punta a fornire accesso allo sport e all’istruzione a basso costo ai giovani svantaggiati organizzando aste benefiche, tennis camp e borse di studio. Non solo: durante la pandemia Kyrgios si offrì di pagare personalmente i pasti a chi non aveva soldi per sfamarsi e all’epoca degli incendi in Australia donò duecento dollari per ogni ace. Autentico altruismo o strategica operazione di immagine? Difficile stabilirlo.
Nel 2024 l’Arthur Ashe Humanitarian Award, il premio che l’Atp ha istituito in memoria del campione americano che fu tra i primi a costituire una fondazione (per la lotta all’Aids, la malattia che lo uccise), è stato consegnato a Dominic Thiem per il suo impegno su progetti che coinvolgono non il tennis (dal quale si è precocemente ritirato) ma l’energia sostenibile. Un premio che negli anni è andato a Andre Agassi, Roger Federer, Rafael Nadal e tra gli altri a Novak Djokovic, tutti a capo di fondazioni benefiche che portano il loro nome.
Agassi, in tandem con Steffy Graf, si occupa dell’istruzione dei bambini emarginati negli Stati Uniti con la Agassi Foundation for Education. La fondazione di Roger Federer, nata in Sudafrica, terra natia di sua madre, sta per compiere ventidue anni, con circa tre milioni di bambini aiutati in sei Paesi africani. Ne ha quindici la fondazione del suo amico-rivale storico Rafa Nadal, che dal 2010 si occupa di aiutare le persone con meno possibilità, e in modo particolare i bambini, a costruire il loro futuro grazie allo sport e all’educazione.
In Serbia, dove un bambino su due non ha accesso all’istruzione prescolare, la Novak Djokovic Foundation Onlus finanzia studi e formazione per garantire un futuro migliore. Non solo: al grido di «I soldi non sono un problema, ho guadagnato a sufficienza per alimentare la Serbia», Nole ha finanziato, oltre alla carriera di tennisti meno fortunati, la realizzazione di un ristorante gratuito per senzatetto e poveri.
E ancora: in omaggio alla loro infanzia difficile (e alla sorella Yetunde, uccisa nel 2003 in California da una pallottola non destinata a lei), Serena e Venus Williams restituiscono e aiutano con il loro Yetunde Price Resource Center. E se Carlos Alcaraz nel docufilm Netflix A modo mio ha appena esternato le sue debolezze rispetto a una vita da campione che impone troppi sacrifici, «Prima la persona, poi lo sportivo» è anche il motto con cui a fine anno ha presentato la sua fondazione benefica: iniziativa scelta per l’esordio di un museo degli oggetti usati (trofei, scarpe, racchette, trofei) nella prima parte della sua carriera.