Il teatro politico dell’indignazione

di Antonio Preiti (huffingtonpost.it, 5 maggio 2021)

Nell’era dell’indignazione e del risentimento la politica ha ancora un senso? O meglio, nell’era dell’indignazione e del risentimento, quale politica si può praticare? Siamo abituati a quella “razionale” (programmi, ideologie, verifica dell’azione di governo etc.), ma ci dice ancora qualcosa, interessa ancora qualcuno? Se non è questa, allora qual è? Guardiamo al potere degli influencer e da dove arriva: dal numero dei like? o da qualcosa di più radicale, di più profondo, anzi di più psicologico che politico? Vediamo. Immagino che nessuno abbia dubbi che proprio l’indignazione e il risentimento siano il segno dei tempi: se torniamo a qualche anno fa, l’indignazione e il risentimento erano la base emotiva (dunque quella più importante) del successo di tutti i movimenti populisti (termine qui denotativo e non connotativo).

Gremlin via Getty Images
Gremlin via Getty Images

Adesso questa base emotiva si è allargata pressoché a ogni area politica. Basta vedere come, nel Partito Democratico, Joe Biden faccia fatica a contenere l’incipiente, anzi piena affermazione, dell’identity politics, fondata proprio sul riconoscimento (o sulla primazia morale) delle identità delle minoranze. Oppure basta pensare alla “cancel culture”, che altro non è se non un guardare alla Storia con gli occhi morali dell’indignazione e non della comprensione storiografica. Altro che influencer. Nel suo testo più famoso, Cesare Beccaria definisce l’indignazione come “l’atto con cui ciascuno guarda il carnefice”. Non c’è definizione migliore. È quello sguardo che, detto in politica, identifica un colpevole per la propria condizione. E un uomo di oggi, un uomo di teatro come David Mamet, scrive che “viviamo in tempi duri, e cioè tempi in cui non si ha voglia di esaminare sé stessi e la propria infelicità”. Sarà così, o forse no, resta il fatto che ridurre il mondo in termini solo “morali” (cioè dettati da sentenze soggettive dualistiche di bene e male) porta in un vicolo cieco, cioè alla radicalizzazione politica senza dialogo. Peraltro secoli di cultura occidentale ci hanno insegnato che il bene e il male convivono nella persona, che semmai è il libero arbitrio che ci fa decidere quale suggestione interiore seguire e a quali convinzioni improntare le nostre scelte.

I social media contribuiscono a esasperare (e alimentano) l’indignazione per ogni cosa, o meglio inducono a usare il linguaggio, le espressioni, le parole dell’indignazione per ogni cosa. Perciò viene (orrendamente) portata al macero la biografia di Philip Roth, perché il suo autore è stato accusato (e non ancora processato) per molestie sessuali (senza nessun legame, naturalmente, tra comportamenti soggettivi e opera letteraria) o per il bacio del Principe a Biancaneve che dorme, senza chiedere il consenso. In sostanza, l’indignazione è diventata il linguaggio ordinario su cose anche ordinarie, perché l’indignazione è l’emozione più forte che porta all’azione che, nel nostro mondo, è il cliccare su un post, mettere un like, condividere un messaggio. È il meccanismo, ben noto, del clickbait, cioè della ricerca disperata di più click possibili, su cui si regge tutta l’economia dei social media. Adesso il cerchio in qualche modo si stringe. La politica non riesce più a riempire l’immaginario emotivo delle persone; il quale immaginario è oggi “rapito” dal linguaggio dell’indignazione (“I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”); che, a sua volta, è la risposta emotiva più immediata rispetto alla fatica di “razionalizzare” le proprie difficoltà; difficoltà che la politica, cha ha sempre meno potere, non riesce ad alleggerire, o a cambiare. Difficile uscire da questo corto circuito.

Parlando del teatro, sempre Mamet (è illuminante come il teatro sia la migliore metafora, oggi, per la politica) dice che “il compito fondamentale del dramma è quello di offrire una soluzione a un problema che non può essere sottoposto a ragione”. Perciò, se il teatro mette in scena l’inconscio come lo spettatore non sa fare da solo, qual è il compito della politica nell’epoca dell’indignazione che non vuole sottoporre a ragione il dramma della sua condizione? Il primo atto è cambiare prospettiva: far coincidere il senso della sua esistenza con obiettivi collettivi (la lotta del potere per il potere interessa solo i protagonisti), cioè dare un traguardo alla collettività, essere freccia e bersaglio insieme. Così è stato in Italia, per esempio, nei primi due decenni post-bellici, quando la ricostruzione materiale e morale del Paese era obiettivo insieme delle singole persone, delle famiglie e dei governi (e delle opposizioni). Il secondo atto è quello di liberare la politica dalle regole che lo rendono un mondo chiuso, a partire dalla selezione della classe dirigente. Una politica senza un flusso e riflusso continuo con la società diventa un corpo estraneo e giustapposto. Il terzo atto coinvolge meno la politica e più la società: c’è bisogno di uscire dalle conseguenze del pensare che oggi l’unico gioco possibile sia quello a somma zero, in cui se qualcuno (singola persona, singolo gruppo sociale o territoriale) ci guadagna, di necessità qualcuno ci deve perdere.

Bisogna ripensarsi nell’ottica dello sviluppo, in una “cospirazione collettiva” che coinvolga tutto il Paese: per avere una buona classe dirigente, bisogna avere buone scuole e buoni costumi, perciò buone leggi, buoni insegnanti, buoni libri, buoni studenti, buoni edifici scolastici, buoni criteri di giudizio e così via. È un movimento collettivo, che solo la politica può guidare, così mettendo in scena un “dramma” migliore dell’indignazione, capace di riconnettere emozione e ragione con un senso. Un senso collettivo, insieme di tutti e di ciascuno.

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